Colui che fece il gran rifiuto

Giovanni Lovito

[Estr. da G. LOVITO, L’Aquila e la Croce: lettura storica della Divina Commedia – Dante e il premachiavellismo, Salerno 2011, (in corso di stampa)]

PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE,

PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:

FECEMI LA DIVINA POTESTATE,

LA SOMMA SAPIENZA E ’L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE

SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.

LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’INTRATE[1].

Il terzo canto dell’Inferno, nel contesto storico – politico della Commedia, assume una certa importanza per un verso che, ormai da secoli, è diventato motivo di discussione per molti critici italiani. Tra gli ignavi, ovvero tra coloro che in vita vissero «sanza ’nfamia e sanza lodo», il Sommo Poeta, dopo essere entrato mediante la porta infernale nel «regno del dolore», scorge «l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto».

In molti, sulla base dell’odio dantesco nei confronti di Bonifacio VIII, hanno visto nell’“ombra” la figura di Celestino V che, come ormai noto, spinto dalle accuse e dalla malafede dello stesso Bonifacio, rinunciò a sedere sul soglio pontificio, lasciando il campo libero al successore[2]. E’ evidente, tuttavia, come in questo caso non si possa parlare di «rifiuto», bensì di «rinuncia»: Celestino «rinunciò» a sedere sul soglio pontificio, non «rifiutò» a priori. E’ risaputo, inoltre, che il papa era stato dichiarato «beato» nel periodo in cui Dante era ancora vivo e ciò convalida l’altra tesi per cui il Sommo Poeta non potesse assolutamente collocare un “santo” fra i dannati dell’Inferno.

Tra i numerosi commentatori del passo ricordiamo, in primis, i figli del Poeta, Jacopo e Pietro. Sull’attendibilità e la fondatezza delle tesi del primo persistono molti dubbi[3], mentre il secondo, evidenziando anch’egli che il papa era stato dichiarato «santo», avanzò l’ipotesi per cui  dietro l’«ombra» possa nascondersi non la figura di Pier da Morrone, bensì quella dell’imperatore Diocleziano. Anche il Boccaccio sembra propendere per Celestino V allorché afferma che l’alto prelato «senza dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il Papato». Benvenuto da Imola confutò l’ipotesi della presenza di un papa tra gli ignavi, giacché, anche se vi fosse stato, l’eventuale rifiuto sarebbe avvenuto non certo per «viltade», ma, al contrario, per «magnanimità».

Nel corso dei secoli l’esegesi ha indotto i critici a veder primeggiare in quel verso le figure di Esaù, Diocleziano, Romolo Augustolo, Ottone III, Vieri de’ Cerchi, Corso Donati, Giano della Bella, Federigo di Svevia, San Filippo Benizio, Alfonso X di Castiglia e, soprattutto, Pilato.

Il Perticari si fece sostenitore della tesi “celestiniana”[4], come il Bambaglioli, Jacopo della Lana[5] e, seppure con qualche incertezza, l’Ottimo, il Buti e l’Anonimo fiorentino.

Carlo Fontana fu di parere completamente diverso, allorché espose alcune interessanti ragioni idonee a confutare l’ipotesi suddetta: Dante non avrebbe potuto porre tra gli sciaurati che mai non fur vivi un papa che aveva dato vita a un fiorente ordine religioso, che aveva eretto chiese monumentali e aveva fondato numerosi monasteri; inoltre nel 1313, quando il Sommo Poeta era ancora in vita, Celestino era stato proclamato santo dalla Chiesa e, come già accennato, la sua fu una rinuncia e non un rifiuto, dal momento che si rifiuta ciò che viene offerto e si rinuncia a ciò che già si possiede. Poiché Dante, quindi, non avrebbe potuto adoperare «un vocabolo così improprio», lo storico si astiene dall’offrire alcuna interpretazione all’ostico verso, asserendo, in conclusione, che «è impossibile far dire al Poeta quello che egli ha voluto ad ogni costo tacere»[6]. Una tesi , questa, suffragata anche dallo Steiner, il quale, non accettando alcuno dei personaggi proposti con assoluta certezza, seguì le orme di quei critici che nell’“ombra” avevano intravisto Celestino V[7]. Tra gli stessi il Del Lungo che biasimò il papa molisano per «non aver voluto essere un tale pontefice, seguace di sapienza, amore e virtute» e, soprattutto, per aver portato, con la rinuncia, Bonifacio VIII al Papato. Quello del pontefice sarebbe stato – sempre per il critico – un vero e proprio «atto di viltà» che avrebbe fatto «da contrappeso a tutti gli altri suoi meriti»[8].

Più di recente il Sapegno, dopo una dettagliata esposizione storiografica e un breve cenno a Pilato, ha intravisto nella figura dell’innominato un «personaggio-emblema», ovvero un termine allusivo di una disposizione polemica che «investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi»[9]; un’ipotesi, questa, formulata già in epoca umanistica dal Landino[10].

La tesi per cui dietro l’ombra possa nascondersi Ponzio Pilato era stata divulgata dal Pascoli, il quale, in uno scritto dedicato a Guido Mazzoni[11], propose alcune questioni fondamentali con cui tese a convalidare la presenza, tra gli ignavi, del procuratore giudaico: chi, fra i personaggi della storia, potrebbe rassomigliare di più a coloro che «visser sanza ’nfamia e sanza lodo»? E ancora, chi è colui il cui nome oscillò tra il bene e il male, tra Dio e il diavolo, tra la misericordia e la giustizia? Chi è, infine, il più gran vile che la storia registri? La risposta del Poeta fu una sola: Pilato.

Pilato che, nonostante avesse riconosciuto in Gesù il rex, il figlio di Dio, lo fece, per viltà, crocifiggere; ed ora, tra i dannati, corre dietro quella “croce” che aveva fatto innalzare ingiustamente. E’ evidente, inoltre, come il Pascoli, forse per primo, abbia intravisto

nell’“insegna” che «girando correva tanto ratta» la croce di Cristo, alla luce di quella lettura simmetrica dei canti di cui l’Aquila e il lignum crucis costituiscono gli elementi fondamentali.

Pasquale Laurelli fece notare come diversi critici avessero toccato «quasi come tema d’obbligo» la vexata quaestio e avessero ripetuto, «come se già fosse cosa assodata», che Dante aveva fatto riferimento proprio a Pier da Morrone: l’odio nei confronti di Bonifacio VIII, infatti, avrebbe indotto il Sommo Poeta a collocare nel vestibolo il papa/santo che, in vita, giammai seguì «sapienza, amore e virtute».

Il teologo molisano, nel confutare tali dichiarazioni, scrisse: «E’ vero che queste enormità furono scritte e stampate nell’ultimo decennio del secolo passato, quando alla Minerva imperava la Massoneria, che premiava e dichiarava benemeriti della cultura quelli che cercavano, specialmente con Dante alla mano di ferire la Chiesa e il Papato; ma, quanti ancor oggi, pur nella mutata atmosfera politica, continuano a bere a tali fonti e a propagare simili idee! Pur ammettendo che l’attacco di Dante contro Celestino – qualora fosse vero – non sia riuscito affatto a scoronarlo della gloria e dell’aureola di santità autenticata dalla Chiesa, non si può disconoscere che, particolarmente la gioventù inesperta – alla quale dalle cattedre delle nostre scuole si continuano a fare simili commenti – corre rischio che le si insinui un’idea doppiamente falsa e perniciosa, e cioè, che la Chiesa abbia potuto elevare agli onori degli altari persone non degne neanche della stima umana, e che, sull’esempio del sommo e divino poeta Dante Alighieri […] possa esser lecito ad un credente di assumere, verso la Chiesa ed i suoi Santi, un atteggiamento non del tutto riguardoso e sottomesso […]»[12]. Lo studioso continuò la sua aspra polemica scagliandosi contro i più insigni dantisti, colpevoli di aver trattato la questione alquanto sommariamente, accontentandosi di accennare superficialmente le loro argomentazioni anziché svilupparle adeguatamente in rapporto a tutto il contesto dell’episodio del terzo canto dell’Inferno. Iniziava, quindi, la “confutazione” degli scritti precedenti partendo da un quesito fondamentale: nel terzo canto sono riscontrabili quegli «argomenti interni» idonei a dimostrare la presenza, tra i dannati, di Celestino V? Successivamente il molisano faceva notare come diversi storici della letteratura fossero stati condizionati soprattutto dall’aggettivo «grande» e dal verbo «riconobbi», con cui il Sommo Poeta avrebbe voluto evidenziare che l’“innominato” altro non poteva essere se non una persona da lui stesso conosciuta:  papa Celestino V.

Il teologo entrava, in tal maniera, nel vivo della discussione, chiedendosi chi fossero effettivamente gli ignavi, ovvero chi impersonassero coloro che il Poeta fiorentino aveva posto nell’Antinferno.

La risposta non si fece attendere: Dante aveva collocato nel terzo canto quelle anime che, pur avendo scorto in vita il giusto cammino nella condotta degli avi, «avevano deviato da esso ed erano divenuti simili a chi fosse morto e pur camminasse, cioè a dire simile a chi, avendo cessato di essere uomo, andasse qual bestia vegetando solamente»[13].

Ecco, dunque, il ritratto preciso degli ignavi: coloro che, avendo ignorato la ratio (quella ratio di cui Virgilio è il simbolo supremo), nella vita terrena furono privi di qualsiasi forma di virtus, in netta antitesi, quindi, rispetto a quanti s’erano avvalsi di «sapienza, amore e virtute»[14]. Erano, questi, gli insipienti che, alla luce della teoria tomistica, s’immersero nelle cose terrene in tal modo «da rendersi, per la conseguente ottusità della ragione e languidezza della volontà, inetti a percepire le cose divine».

Alla fine dell’interessantissimo capitolo, quindi, lo scrittore riportava alcune fondamentali deduzioni:

  1. – «I dannati del Vestibolo sono e si debbono chiamare gli insipienti, perché così li denomina Dante medesimo, quando li definisce “i cattivi – a Dio spiacenti ed a’ nemici sui; e perché solo in tal modo si spiegano tutte e concordemente le parti di questo episodio»;
  2. «il Poeta qui condanna non un peccato determinato, come fa negli altri cerchi dell’Inferno; ma solo la disposizione di animo di quei dannati, la loro qualità, che è vizio perdurato per tutta la vita terrena»;
  3. «quindi, “colui che fece per viltà il gran rifiuto” si trova nell’Antinferno, non per la ragione specifica di quel “gran rifiuto”, e nemmeno perché fatto per “viltà”; ma solo perché […] fu un insipiente e tale per tutta la vita: questa è la vera causa discriminante, sì che “Colui”

sarebbe piombato ugualmente in quel luogo, anche se in questo mondo non avesse avuto occasione di compiere quel vile e gran rifiuto, a cui allude il Poeta»[15].

Alla luce di quanto esposto, per poter riconoscere nell’“ombra” la figura di Celestino V si dovrebbe dimostrare, in primis, che il pontefice in vita era stato un insipiente, che giammai compì qualche opera degna di lode e che, infine, condusse la sua esistenza come quella di un «non nato», di cui non sarebbe rimasta memoria nei secoli[16].

Queste, dunque, le deduzioni fondamentali che indussero il Laurelli a scorgere

nell’“ombra” del terzo canto dell’Inferno non Celestino V, Diocleziano, Romolo Augustolo o Pilato, bensì, sulle orme del Compagni e del Villani, Vieri de’ Cerchi[17].

 

 

 

***

 

 

Un punto, ora, va tenuto ben saldo: anche in questo canto dell’Inferno predomina la teoria già riscontrata nel canto introduttivo, ovvero quella relativa alla virtus umana nettamente contrapposta alla viltà.

Lo stesso Virgilio, emblema di sapienza e virtù, invita Dante a mettere da parte «ogni viltà»; poco dopo il Sommo Poeta scorgerà «colui che fece per viltade il gran rifiuto».

Una viltà, dunque, contrapposta alla virtus e, sulla base di una lettura simmetrica dei canti, al Veltro, unico e vero latore di «sapienza, amore e virtute». Chi, quindi, nel contesto generale della storia dell’Impero romano (quest’ultimo, in chiave storica, elemento fondamentale e prioritario del Poema) fu un vile e un insipiente? Chi, umanamente e moralmente, si pone in netto contrasto rispetto al princeps/rex virtuoso e saggio decantato e glorificato da Dante in diverse parti della Commedia? Chi, ancora, nonostante l’importante carica assunta nel quadro generale della storia imperiale, commise, per viltà, un reato talmente grande da indurre il Sommo Poeta a collocarlo tra i dannati del vestibolo? Sicuramente Pilato, il procuratore imperiale che, nel far condannare Cristo, si dimostrò poco virtuoso; il procuratore imperiale, ancora, che, ripudiando la ragione, ignorò il valore della virtus e si oppose alla iustitia, quest’ultima segnacolo ed emblema supremo dell’Imperium.

Lo sdegno del Poeta fiorentino nei confronti di «colui che fece per viltade il gran rifiuto» è così spiegabile: ancor prima di “condannare” la donatio e Costantino, il Fiorentino si scaglia contro un altro cattivo rappresentante dell’Impero romano, contro il procuratore che tenne in poco conto la giustizia, in quanto privo di ogni virtù umana, civile e, soprattutto, politica. E’ evidente come tale tesi ben si collochi nel discorso generale affrontato in questo saggio: nel canto successivo, sicuramente contrapposto a quello degli ignavi, irredenti dell’Aquila, i Poeti incontreranno gli “spiriti magni” del nobile castello, irredenti della Croce, simboli supremi della grandezza storica e culturale della Grecia e di Roma. Solo pochi canti ancora e un fedele “rappresentante” dell’Impero romano, il «padre dell’alma Roma», sotto forma di messo celeste aprirà la porta di Dite.

Il “vile governatore” e gli «sciaurati che mai non fur vivi» saranno per Dante solo un lontano ricordo.

O forse.

Giovanni Lovito

 

 

 

 


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