CALABRIA SPARA

 

di Michele Ingenito

Frase non veritiera e ingiusta per un calabrese che davvero ha sparato. Sembra un gioco di parole. Ma tale non è e non vuole essere. Sul piano reale almeno. Perché, su quello simbolico, lo scenario cambia.  Senza concedere né giustificazioni né attenuanti al fatto criminale in sé, questo gesto estremo traduce in maniera violenta e inammissibile la condizione di quella parte di Paese sempre più numerosa, afflitta dalla disoccupazione, dai fallimenti societari e imprenditoriali, dalla fame. Quella stessa ‘Italia’ che oggi spara ai carabinieri, ha già sparato contro se stessa. Attraverso le mortificazioni, le rinunce, il calpestio delle dignità individuali, i suicidi di povera gente (pensionati, imprenditori e così via) impossibilitata a campare. Nel caso del calabrese di Rosarno la reazione estrema – radicale e avventata – per un problema tutto personale non merita alcuna giustificazione. Ma capire la psiche di un uomo che da anni incassa sconfitte, fallisce nella vita privata e in quella professionale, viene privato della propria dignità e si rintana per questo nell’habitat paterno è quanto meno doveroso; sul piano umano, se non altro. Perché di quella irrazionale follia intenzionalmente omicida scatenatasi contro due carabinieri innocenti è stato ed è il primo a rendesi conto, a pentirsene, a chiedere scusa. Come ha fatto con grande dignità e a capo scoperto la sua famiglia, stupita come tutti del gesto inconsulto ed imperdonabile del proprio congiunto. Ma quanto, ci chiediamo, nell’esasperazione incontrollata che ha spinto quell’uomo a generalizzare in maniera inammissibile i propri problemi, ha inciso la corruzione dilagante di un sistema-Italia di cui lui, come tanti, si sentono vittime impotenti? Quanto tutto ciò si è materializzato nella sua mente di uomo distrutto al puntoda identificare “nei politici” i responsabili del proprio fallimento, non tanto familiare, ma di ex-imprenditore, pur nei reciproci, inevitabili riflessi? Se analizziamo sotto il profilo psicologico le dichiarazioni finora rese da Luigi Preti, l’uomo della sparatoria a Palazzo Chigi, esse confermano lo stato di disagio sociale dietro il quale si nasconde il medesimo di centinaia di migliaia di italiani, di milioni di disoccupati, di giovani pur qualificati votati al nulla fare chissà per quanto tempo, di una condizione di sfiducia e sconforto che, in menti comunque non perfettamente equilibrate come nel caso di specie, determinano violenza su violenza: contro gli altri, ma anche contro se stessi. Non si contano ormai i suicidi di povera gente – pensionati, imprenditori, gente comune – letteralmente impossibilitati a vivere. Questa volta la violenza si è abbattuta, purtroppo, nuovamente sull’Arma, nell’impossibilità di colpire “i politici”. Non fa differenza, è ovvio. La violenza è sempre ingiustificata, specie se provocata da chi è lucido e non folle. Ma il tam-tam quotidiano di una informazione di massa sistematicamente aggiornata sulle ruberie progressive di tante rappresentanze politico-nazionali o regionali rischia di alienare ancor più lo stato di salute mentale delle masse, scatenando nei più deboli rabbia inconsulta, fermenti reattivi pericolosissimi ed esplosivi, soprattutto da parte di chi, a torto o a ragione, si sente più vittima degli altri. Da qui il drammatico gesto dell’ex-imprenditore calabrese che ha sparato quasi per sfregio ai due carabinieri di Palazzo Chigi, nell’impossibilità di colpire i veri responsabili di uno Stato a suo avviso marcio. Cioè, l’intera classe politica nazionale e/o i vertici delle sue rappresentanze regionali (Basilicata, Calabria, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia, Friuli-Venezia Giulia e così via), indagati e/o arrestati per squallidi episodi di ruberie da quelle spicciole e più disgustose a quelle più sostanziali e concrete. E’ evidente, dalle dichiarazioni dello sparatore calabrese, il senso ‘politico’ del suo deprecabile gesto. Certo, non esistono mai giustificazioni alla violenza. Per quanto deprimente sia e resti lo scenario delle ruberie politico-regionali e nazionali italiane, assai sintomatici di una mentalità (e questo è grave) della corruzione pubblica trasferitasi, ormai, al centro del sistema.

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