CONVEGNO

“Lavoro, Etica, Partecipazione”Giovedì 18 aprile 2013 – ore 8.30 Mediterranea Hotel Salerno

Ing. Rossano Festa Direttore Direzione Territoriale Lavoro Salerno

 Il primo valore che ci deve guidare nella sfida di una moderna visione del lavoro è la centralità della persona.

Il principio della centralità della persona costituisce uno dei cardini dell’ordinamento costituzionale italiano ed il diritto al lavoro ne costituisce un elemento caratterizzante.

Da questo punto di vista la classe dirigente ha un compito non certamente facile, perché ha la responsabilità di operare con le persone e, quindi, deve saper realizzare le migliori condizioni per favorire ogni possibile sinergia che faccia emergere fiducia, attraverso la realizzazione di un rapporto che sia in grado di alimentarla reciprocamente e non unilateralmente.

Come in passato, oggi è la società occidentale ad essere preda di una crisi di cui sembra difficile tratteggiarne i contorni, tanto appare profonda e diffusa. Gli effetti coinvolgono le principali certezze che il nostro mondo ha conquistato in tanti anni di storia, soprattutto, dopo il secondo conflitto mondiale.

La sua economia, il sistema produttivo e la stessa tenuta dell’occupazione, sono corrose da un complesso stato di problematiche dal quale non si riesce a trovare via d’uscita. Anche il sistema politico e lo stesso tessuto sociale appaiono disorientati ed alla ricerca di una direzione di marcia che fino a poco tempo fa aveva portato a raggiungere importanti traguardi di coesione e di sviluppo, come l’avvio del disegno dell’Europa Unita, dell’Euro, fino ai processi di pace e di conciliazione internazionale.

Probabilmente è stata smarrita la dimensione umana sulla quale dovremmo misurare la nostra esistenza.

Ha preso piede, invece, un lento processo di logoramento della parte più viva della personalità di ognuno di noi.

Questo fenomeno si è manifestato nel momento in cui è stato attribuito minor significato al lavoro, valore che più di ogni altro si identifica con la dimensione umana. Il lavoro inteso come mezzo di emancipazione e crescita. Il lavoro attraverso il quale è possibile migliorare la propria esistenza, realizzando un progetto di vita familiare o acquistando casa.

E’ il lavoro che ci consente di partecipare attivamente nella società, permettendoci di migliorare la nostra condizione. Laddove il lavoro viene negato, si perde, conseguentemente, la possibilità di usufruire di quei beni materiali ed immateriali, che costituiscono la nostra fonte di sostegno e, di conseguenza, le interazioni interpersonali risultano più difficili.

L’utilizzazione della tecnologia ha sovvertito l’azione dell’impresa e la suggestività del lavoro, rompendo un patrimonio di valori dei quali ha sofferto anche l’impresa e i casi degli scandali di cui ne siamo quotidianamente testimoni sono un esempio.

La finanza virtuale, quella che ricorre a continue operazioni a spirale, segna una distanza abissale in termini culturali e materiali, tra l’uomo e l’attività del suo lavoro.

Altre, invece, sono la cause alla base dell’attuale crisi delle economie dei Paesi più avanzati, radicate pur sempre su presupposti irresponsabili e mendaci.

Solo alla luce di quanto si sta verificando nel mondo con l’attuale crisi che coinvolge attualmente le banche, istituti di credito e industrie, sono diversi gli economisti e gli studiosi che si sono dovuti ricredere su alcune convinzioni.

Soprattutto si fa strada la consapevolezza che se i servizi basati sull’informatica e la finanza, non fanno riferimento ad un’economia trainata da una solida industria manifatturiera, corrono il rischio di operare nel deserto.

Le famiglie oggi sono in grave difficoltà. Vero è che siamo abituati ad un grado di benessere diffuso per cui un certo ritorno alla frugalità può anche avere degli effetti positivi. Ma il punto è che questa, come tutte le crisi, sta allargando la forbice tra ricchi e poveri in modo tale che rischia di avere costi pesantissimi nel medio-lungo periodo. Parliamo di redditi da pensione, certamente, ma in questa sede dovremmo concentrarci soprattutto su quelli da lavoro, sia esso dipendente, o dedito all’attività autonoma ed imprenditoriale. Dobbiamo dire chiaramente che l’aumento della pressione fiscale diretta è una misura di emergenza e che deve avere una fine. Iva al 23% e accise sui carburanti, tanto per non andar lontano, non solo hanno effetti depressivi sui consumi e appesantiscono i costi per l’impresa, ma soprattutto non possiedono un carattere progressivo e contribuiscono ad accelerare il divario tra i redditi. Certo si doveva agire subito. Ma ora è venuto il momento di pensare ad un modo diverso di imporre le imposte in Italia, garantire la copertura delle informazioni sui patrimoni e redditi ed accelerare le semplificazioni dei procedimenti amministrativi.

Alcuni preferiscono che sia lecito, in nome della crisi, ignorare norme anche basilari in materia di diritti, sicurezza, contribuzione e benessere dei lavoratori , quasi fossero altre le priorità a cui sacrificare il grado di convivenza civile nel mondo del lavoro. Non possiamo giustificare, in nome delle ragioni di presunta sopravvivenza, che si estenda il nero, che si abbassi la guardia in materia infortunistica.

D’altro canto è doveroso contrastare l’abuso di diritto e, al contrario, rafforzare la compartecipazione alle scelte anche impopolari, laddove necessarie. La pratica delle relazioni industriali e sindacali ha dimostrato di aver ampiamente fatto ricorso a scelte che tanto più si sono dimostrate efficaci nei risultati, quanto più si sono improntate a solidarietà e responsabilità negli scopi.

L’ideologia dell’autoregolazione ha dimostrato il suo disarmante fallimento e sta conducendo a squilibri ormai prossimi alla soglia di insostenibilità.

L’unico antidoto è ancora una volta quello della responsabilità, che significa anche tener conto dello scenario globale in cui si operano le scelte.

Il dato più significativo è che sempre più spesso veniamo superati nell’innovazione di processi, più che dalla semplice concorrenza sui costi.

Bisogna perseguire l’innovazione di processi  e valorizzare le doti di adattamento, innovazione, creatività.

Se fondamentale per la ripresa è l’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro, non meno importanti sono i fattori che valorizzano anche su base etica il lavoro italiano nella competizione globale, ovvero forte potenziale di ricerca e sviluppo, attenzione costante alla qualità, eccellenza delle produzioni ad alto valore aggiunto, creatività della cultura di origine. La trasmissione di valori e competenze da una generazione all’altra, l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, il superamento delle disparità di trattamento tra lavoratori di diverse generazioni, la rifondazione dell’apprendistato, il riconoscimento del merito sono elementi fondamentali per la rigenerazione del lavoro in Italia.

Decenni di mancati interventi di politica industriale, unitamente all’abbandono dell’investimento pubblico in ricerca, hanno prodotto un’endemica fragilità del debito estero dell’Italia, l’esemplificazione più netta di un paese che “consuma” innovazione ma che non ne produce a sufficienza da rendere sostenibile il suo status di economia industriale avanzata.

La grande sfida che immediatamente deve essere lanciata in nome della “guerra” allo “spread”, in una prospettiva di rilancio dell’economia e di sviluppo duraturo non può che partire da un’attenzione per politiche di intervento pubblico significativamente focalizzate sul rilancio degli investimenti in ricerca e sulla rigenerazione del tessuto industriale in settori a più “alta intensità tecnologica” e non da correttivi finanziari.

Oggi, nessuno ritiene che lo Stato debba restare a guardare lasciando libero il mercato di ricercare i propri equilibri, devastando sotto il ciclone della crisi l’esistenza di intere comunità. Anzi, si chiede proprio il contrario invocando l’aiuto del denaro pubblico per salvare dalla bancarotta banche e colossi industriali.

Bisogna, però, non dimenticare l’importanza dell’individuo rimettendolo al centro del mondo.

Oggi noi osserviamo un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti: la fuga dalle responsabilità individuali che caratterizza l’operato di molti.

Perchè succede? Perché i manager di grande aziende si difendono affermando “di aver solamente eseguito gli ordini”?

Le cause di quest’atteggiamento e di questa mancata assunzione di responsabilità ha cause antiche e profonde e vanno ricercate in diversi aspetti che caratterizzano il vivere civile del nostro Paese.

L’uomo contemporaneo ha perso gran parte dei riferimenti naturali, istituzionali, ideologici e spirituali che, in un passato anche recente, erano in grado di aiutarlo ad esprimere valori ed ideali capaci di dare un senso alla vita, sia individuale che collettiva. E, quando non c’è più rispetto, a tutti i livelli, per le regole e le leggi, anche quelle morali e d etiche, si finisce per non credere più a nulla e a perdere la fiducia negli altri e nella collettività .

La globalizzazione dell’economia ed il progresso tecnologico e scientifico stanno provocando profondi cambiamenti nella vita quotidiana delle persone con una conseguente e progressiva riduzione dello spazio di previsione sugli effetti di lungo periodo delle azioni umane. Un altro aspetto che ha contribuito a de-responsabilizzare gli individui è quella visione della vita sociale che considera buono e sano tutto ciò che è collettivo, mentre tutto ciò che è individuale è cattivo e malato. Una delle conseguenze di tale atteggiamento è la costante contrapposizione fra mondo profit e no profit – ancora troppo marcata nel nostro Paese – che non favorisce quelle reciproche contaminazioni che sarebbero invece utili per portare valori e ideali agli uomini d’affari e cultura d’impresa ai volontari del terzo settore.

La scarsa fiducia negli altri, la diffidenza nei confronti delle istituzioni, la prevalenza dell’interesse particolare sull’interesse generale, sono caratteristiche che una comunità prima o poi paga a caro prezzo, soprattutto in termini di coesione sociale

E’ urgente e necessario, da una parte, riportare l’uomo – e non un’astratta e impersonale organizzazione – al centro dei processi economici e dell’agire umano; dall’altra rivalutare la cultura della responsabilità individuale che va indissolubilmente coniugata con l’etica.

Solo l’intima riflessione e l’assunzione della cultura del rischio a fianco della responsabilità individuale, possono essere un antidoto forte e permanente alla degenerazione delle organizzazioni.

L’uomo, sia esso imprenditore o manager, dipendente o consulente deve imparare a dire NO e, in qualche caso, deve imparare “a non fare ciò che potrebbe fare”, perché, tutto ciò che è economicamente o tecnicamente fattibile non è sempre eticamente praticabile. Il rischio è che le organizzazioni operino senza alcun investimento né impegno diretto per migliorare il mondo, come se l’agire economico facesse parte di un sistema filosofico, politico e sociale astratto e slegato dalla vita dell’uomo.

Oggi bisogna convincerci che non esistono organizzazioni ideali, bensì organizzazioni efficaci, in grado di elaborare e tradurre in pratica strategie di successo in ambienti complessi ed in costante cambiamento. Organizzazioni solitamente orientate ad alimentare lo spirito imprenditoriale, l’innovazione continua e culture interne caratterizzate dalla propensione al cambiamento, dal rispetto interpersonale, dalla trasparenza, da un tasso sufficientemente elevato di fiducia nei rapporti interpersonali. Organizzazioni che devono riuscire a costruire condizioni di lavoro motivanti e soddisfacenti, che devono cercare di “trattare bene” le persone per fare in modo che abbiano voglia di fare e di farlo proprio al loro interno e non da qualche altra parte. In questi contesti, solitamente anche gli strumenti dell’etica organizzativa hanno un posto spesso di rilievo.

Nel mondo del lavoro il concetto di etica assume duplice valenza a seconda che si riferisca all’attività di impresa ovvero alla prestazione del lavoratore.

Non bisogna confondere l’etica con la legalità ovvero con la morale.

L’etica, infatti, attiene al momento di individuazione delle regole e non al rispetto delle stesse; tale ultimo aspetto riguarda esclusivamente l’onestà dell’imprenditore (morale) o il suo rispetto/timore delle sanzioni previste dalla normativa in caso di trasgressione di norme formali (legalità).

Ogni volta che prendiamo una decisione non possiamo eludere la domanda su quali conseguenze avrà la nostra decisione sugli altri!

L’etica non è una conquista definitiva. Non è acquistabile, né trasferibile ed è il frutto di precise e consapevoli scelte personali e del lento sedimentarsi di piccoli e quotidiani comportamenti che cercano di dare risposta ai dilemmi etici che si presentano ogni giorno. Per questo guardo con qualche perplessità alla crescente attenzione che le organizzazioni hanno per la responsabilità sociale, quasi che fosse sufficiente essere “certificati” adottare un “codice etico” e/o chiamarsi “impresa sociale” per essere eticamente corretti e socialmente responsabili.

Le organizzazioni sono eticamente neutre. I comportamenti umani, invece, non sono e non possono essere neutri.

Etica personale, etica professionale e responsabilità sociale sono inseparabili. Senza una profonda visione morale ed etica, unita ad un grande senso di responsabilità delle singole persone, non può esserci responsabilità collettiva delle e nelle organizzazioni. Per questo motivo parliamo di etica della responsabilità, cioè di un etica che si interroga ogni giorno sulle conseguenze che le azioni delle persone e delle organizzazioni possono avere sugli altri, sull’ambiente, sulla comunità, sulle generazioni future.

Una prospettiva corretta deve porre l’etica quale elemento partecipe della fase genetica del sistema, nel momento in cui trovano definizione le regole che consentono al sistema stesso di essere avviato, altrimenti si rischia di svuotare di effettivo significato ogni discussone e proposta indirizzate verso il superamento delle dinamiche conflittuali o, comunque, di sospetto e avversione fra impresa da una parte e lavoratori dall’altra.

Tutto quanto detto però conduce a una nuova cultura del lavoro che mette al centro la persona, la sua professionalità, e non un posto fisso specifico e unico che, purtroppo, in questo tempo di crisi, è diventato una chimera.

È l’occupabilità che va valorizzata e non l’attaccamento, spesso esasperato, tra il lavoratore e il suo posto di lavoro. Oggi deve  esistere un mercato del lavoro dinamico ed inclusivo, che non lasci ai margini donne e giovani. La dinamicità del lavoro consiste nella possibilità di iniziare a lavorare non appena vengono terminati  gli studi, e non dopo mesi o anni come succede adesso, ma consiste anche  nella necessità di mutare atteggiamento verso alcuni tipi di occupazione  spesso considerati  distanti dalle proprie aspirazioni.

Purtroppo a causa della persistente recessione, il rassicurante prototipo del lavoro subordinato standard non rappresenta più la fattispecie di riferimento, nella prassi operativa come nella legislazione sul lavoro.

Naturalmente la mobilità e la precarietà  del rapporto rendono necessario che negli intervalli tra più impieghi i lavoratori vengano assistiti con adeguati sussidi e con la partecipazione a corsi di riqualificazione, che accrescano la possibilità di trovare presto un nuovo lavoro.

Anche il ruolo del sindacato, assolutamente importante e centrale per la difesa dei diritti dei lavoratori, come ogni realtà umana ha bisogno di adattarsi all’attuale fase storica.

Anzi il rendersi conto di questa situazione molto negativa alla quale non è possibile sottrarsi deve  costituire per il sindacato uno stimolo importante a quell’atteggiamento di apertura al cambiamento e all’apprendimento permanente che oggi appare più che mai indispensabile.

Un moderno  sindacato non può manifestarsi unicamente nella tutela e nella promozione del lavoro dipendente a tempo pieno ed indeterminato, ma anche nella  tutela  delle nuove forme e tipologie  di lavoro cd. atipico (contratto a progetto, contratto a termine, apprendistato, contratto a tempo parziale, contratti formativi, stage etc.)  che meritano anch’esse apprezzamento e  sostegno sociale.

Una nuova sfida e opportunità  attende dunque il sindacato che in tempo di crisi economica può e deve agire non solo per gestire la necessaria flessibilità del lavoro ma anche  per garantire un diritto alla formazione per l’intero arco della vita, come investimento dell’individuo e nell’interesse più generale della società.

In un mondo dove anche i mercati del lavoro stanno attraversando un momento di accentuato dinamismo se non di turbolenza, si richiede che il sindacalismo aggiunga al momento del confronto quello dello sviluppo, passando da una protezione passiva dell’individuo come lavoratore ad una protezione attiva del lavoratore come persona.

Dalla capacità di riunire i due momenti dipende la capacità di competere sul mercato globale.

Nell’attuale fase di declino assistiamo a veri e propri fenomeni di deindustrializzazione e la ricerca del lavoro si è trasformata da diritto in dramma che coinvolge milioni di persone. Tutto questo, però, sta dentro una nuova “grande trasformazione” che va capita e fatta capire perché può portare la nostra società a nuovi livelli di civiltà, libertà e benessere oppure a farla precipitare verso oscuri lidi regressivi ed antidemocratici se la crisi continuerà ad essere gestita con gli occhiali deformati del conservatorismo che si misura solo con il passato e non con il futuro.

Il Sindacato deve stare con i lavoratori colpiti dalla crisi. Deve difenderli perché cosi mantiene e rafforza la sua natura di organizzazione democratica e si dà titolo per chiedere ai lavoratori  stessi  di avere fiducia nella possibilità di costruire un diverso avvenire evitando proteste violente.

Ma non può fermarsi a questo. Deve provare ad immaginare la congiuntura come un momento per favorire una valutazione seria sul ruolo etico e sull’identità del sindacato stesso.

La dimensione etica deve entusiasmare e tormentare la quotidianità dell’impegno sindacale e la multiforme valenza positiva del termine “etica,  insistentemente richiamato anche dalla dottrina sociale della Chiesa, deve pervadere tutta l’economia che ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona.

A tal proposito si impone una riflessione sul rapporto tra etica e profitto.

Senza il profitto, o meglio, senza la garanzia della possibilità di ottenerlo, il sistema economico, nella società attuale, sarebbe assolutamente improduttivo.

In un sistema eticamente valido, tuttavia, la tutela della possibilità di profitto deve essere finalizzata non solo verso l’arricchimento individuale, ma anche verso l’accrescimento economico e sociale della collettività.

Risulta evidente, dunque, come le regole poste per la conduzione dell’attività economica debbano garantire all’impresa la possibilità di profitto, per cui non risultano validi i sistemi in cui una pressione fiscale contributiva eccesiva mortifichi la produzione ovvero in cui le dinamiche contrattuali non siano effettivamente calibrate sulle possibilità di performance aziendale.

Al contrario non possono essere considerati eticamente validi i sistemi in cui all’aumentare del profitto di impresa non corrisponda un aumento, anche parziale, della ricchezza collettiva, sia in termini economici che sociali.

A titolo di esempio si ritengono non corretti sul piano etico i sistemi in cui non si prevede un correlato aumento delle retribuzioni, anche non proporzionale, rispetto all’aumento del profitto; i sistemi in cui non si attui il reinvestimento di parte del profitto nella formazione e sicurezza.

Concludendo, la responsabilità etica in ambito sociale che fa capo sia al Dirigente della P.A. sia al professionista che al committente trova criteri fondamentali di comportamento non solo nella trasparenza, come dichiarazione dell’obiettivo perseguito e delle modalità che si intendono utilizzare per raggiungerlo, e nella veridicità, ma anche in altri quali la chiarezza, la completezza, la tempestività, la correttezza e l’ uniformità.

E proprio in questa logica di  “centralità della persona e centralità del lavoro”  il Ministero del lavoro ha emanato direttive che le Direzioni Territoriali e Regionali eseguono nella programmazione e nello svolgimento dell’attività di vigilanza e di ispezione nelle aziende, con lo scopo di rilanciare la filosofia preventiva e promozionale, anziché repressiva. Le moderne direttive indicano agli ispettori il quadro dei compiti e delle modalità di accertamento in una nuova logica di servizio e di collaborazione con gli imprenditori, i lavoratori e le loro associazioni e i consulenti e non più di mero esercizio di potere, suggerendo l’adozione di una filosofia di azione «diretta essenzialmente a prevenire gli abusi e a sanzionare i fenomeni di irregolarità sostanziale» e l’abbandono di «ogni residua impostazione di carattere puramente formale e burocratico, che intralcia inutilmente l’efficienza del sistema produttivo senza portare alcun minimo contributo concreto alla tutela della persona che lavora».
La nuova vigilanza ruota appunto attorno alla centralità della «persona che lavora», che è, innanzitutto, il prestatore di lavoro, ma anche il datore di lavoro. Compito dell’ispettore è «tanto la tutela del prestatore di lavoro, quanto la garanzia di una leale concorrenza tra le imprese, che si coniugano certamente con la puntuale repressione degli illeciti, ma anche, e forse soprattutto, con la prevenzione degli stessi e con la promozione di una più diffusa e radicata cultura della legalità», con l’obiettivo finale della tutela del lavoratore ma anche quello dell’efficienza del sistema produttivo, falsato così com’è da aziende che ricorrono al lavoro sommerso o all’uso distorto di fattispecie contrattuali.

Tale principio appare chiaramente laddove le direttive si soffermano a parlare della sospensione aziendale, suggerendo nuovi indirizzi che gli ispettori potranno seguire nell’ambito della discrezionalità che viene loro riconosciuta dalla legge.

Ricordiamo che la finalità del provvedimento di sospensione è quella di “far cessare il pericolo per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori” e contestualmente sanzionare  sia l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria, sia  condotte che reiterano gravi violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul  lavoro.

In particolare le attuali direttive ministeriali chiariscono che la sospensione non debba colpire la microimpresa trovata con un solo dipendente irregolarmente occupato  per non punirla in maniera esasperata.

Infine con riguardo alla conciliazione viene sottolineata l’importanza, al fine di risolvere sul nascere la lite tra lavoratore e datore di lavoro, della corretta e generale attuazione del tentativo di conciliazione prima dell’avvio dell’attività ispettiva. Il vantaggio della conciliazione tocca entrambe le parti: il datore di lavoro, che ammettendo la sussistenza del rapporto di lavoro non paga nessuna sanzione ed evita l’ispezione sui fatti denunciati, ed il lavoratore, che si vede riconosciuto il rapporto di lavoro e la relativa retribuzione senza dover affrontare un lungo iter giudiziario. In ogni caso, ai fini della praticabilità, è importante che non si evidenzino indizi di violazioni penalmente rilevanti, poiché in tali casi diventa obbligatorio per gli ispettori procedere ad accertamento vero e proprio.

Oggi però con la legge Fornero i nostri governanti hanno cercato di dare una risposta alle politiche del lavoro nell’intento di favorire l’occupazione, ma, ahimé, già una legge che titola “La riforma del mercato del lavoro in un’ottica di sviluppo” fa pensare ad un’utopia in quanto guardandoci intorno notiamo solo fabbriche che chiudono, imprese che falliscono o vanno altrove, crisi totale per l’occupazione a causa di un lavoro che ormai non c’è più.

Come è possibile pensare ad una prospettiva di crescita in questo contesto? Come è possibile applicare oggi una legge che guarda al futuro?

Futuro che può essere anche fra cinque, dieci anni, ma non certamente può essere attuato in questo momento storico.

Una legge che si presenta senza proroghe della mobilità e del relativo finanziamento, che preclude da tale disciplina le imprese minori con dipendenti inferiori a 15, un’ASPI che viene gravata sulle aziende stesse e finendo per essere una sorta di contributo di solidarietà per coloro che non possono accedere agli ammortizzatori sociali.

Abbiamo un incremento dei costi aggiuntivi per i contratti a tempo determinato, un aumento contributivo sempre a danno dei datori di lavoro per gli apprendisti, incremento di aliquota per le gestioni separate presso l’INPS, nuovi contributi per i fondi di solidarietà bilaterali, incremento contributivo per i soci dipendenti di cooperative, ecc..

Ma come è possibile attuare una norma del genere quando da anni si dice che le imprese non riescono più a sopportare una pressione fiscale e contributiva così elevata? Ma come ci può essere un’occupazione con questa norma?

Pertanto detta legge dovrà essere assolutamente modificata se non del tutto cambiata con l’aumento del grado di flessibilità sul mercato del lavoro, unitamente ad una moderazione salariale e ad un bonus sulle assunzioni.

Ma ciò può essere uno stimolo alla crescita occupazionale, ma non ad una crescita produttiva.

Accanto a tale nuova riforma del mercato del lavoro si devono far corrispondere nuovi istituti di tutela alle trasformazioni del modello produttivo.

Pertanto, in congiunta a politiche attive del lavoro devono essere attuate innovative politiche industriali per accompagnare tale fase di transizione.

Ciò, per esempio, può essere attuato assumendo a riferimento quei sistemi locali produttivi che attivano i bacini del mercato del lavoro.

Da un lato bisogna quindi stimolare la crescita  complessiva del nostro sistema in termini di competitività internazionale centrata su innovazione e qualità di prodotti, dall’altro contenere i salari per i lavoratori e formarli adeguatamente e continuamente.

Si rende necessaria, dunque, sia l’elaborazione di un sistema di tutele che vada al di là delle singole figure contrattuali, sia interventi di policy che rimuovano le segmentazioni del mercato del lavoro in cui alcune fasce di lavoratori sono caratterizzate da una condizione di perenne precarietà senza la possibilità di acquisire competenze professionali o mezzi finanziari per migliorare la loro posizione.

Concludendo, per affrontare ed attuare quanto testé affermato è indispensabile un governo stabile ed una classe politica all’altezza di recepire ed interpretare tali esigenze, applicandole in un’ottica di cambiamento e con l’urgenza che l’attuale situazione economico-sociale del Paese richiede.

I continui litigi tra i partiti, espressione di un’antiquata concezione della politica, dovrebbero cedere il passo ad una nuova logica bipartitica che recepisca i mutamenti economico-sociali avvenuti nel mondo, nell’Europa ed in Italia.

La classe politica così rinnovata non dovrà governare con lo sguardo rivolto al passato e con i tradizionali metodi ormai obsoleti, bensì dovrà essere protesa ad un sistema gestito da nuove regole, flessibili ed innovative per adattarsi ai continui mutamenti che avvengono nella società civile.

Soltanto se la politica, la classe dirigente e le organizzazioni di categoria datoriali e dei lavoratori sapranno, tutte insieme, interpretare ed attuare all’unisono nuove forme di partecipazione, si potrà emergere dalla profonda crisi che ci attanaglia.

Diversamente il baratro è alle porte.

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