Mafia-Stato: il ruolo di Napolitano e la svolta di Salerno

Aldo Bianchini

SALERNO – Ho già scritto in un recente passato sulla vicenda del patto “Stato – Mafia” che da qualche tempo campeggia sulla grande informazione nazionale ed internazionale, soprattutto dopo l’audizione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, da parte della Corte di Assise di Palermo ed alla presenza anche dell’avvocato del super capo della mafia Totò Riina. Da ieri Giorgio Napolitano è “Presidente della Repubblica emerito” dopo essere stato l’unico Presidente rieletto per un secondo mandato che solo per ragioni di età non ha portato a termine fermandosi alla conclusione del semestre a presidenza italiana dell’Unione Europea. All’epoca del presunto accordo era “presidente della camera dei deputati” e successivamente “ministro dell’interno” nel primo governo Prodi. Un uomo, un personaggio, un politico al quale tutti noi dobbiamo essere riconoscenti per quanto ha dato alle istituzioni ed a tutto il Paese. Spesso non ho condiviso quel suo modo di “riformare la costituzione senza riformarla”, quel suo eccessivo presenzialismo nelle decisioni proprie del Governo; ma forse a conti fatti quel suo intrufolarsi nella politica, andando al di là dei suoi poteri, è stato soltanto un modo per evitare danni assai peggiori che politicanti inesperti e inadeguati stavano arrecando al Paese che Lui ha, comunque, amato con assoluta devozione. Ma cosa ci ha lasciato Giorgio Napolitano in merito alla vicenda del presunto accordo “stato-mafia”: la verità o l’ennesimo mistero ? Probabilmente  non lo sapremo mai. Ma la città di Salerno cosa c’entra con questa storia del presunto “patto stato-mafia” ? Per chi volesse andare a rileggere qualcosa suggerisco il mio articolo del 25.11.2010 dal titolo “Stato-mafia: la svolta di Salerno”. E perché la vicenda “Stato-Mafia” potrebbe aver avuto come suo fulcro epicentrale la città di Salerno e per essa il Palazzo di Giustizia ? Per capirlo bisogna ritracciare, in breve, il quadro degli avvenimenti che legati a tangentopoli (forse come copertura verso l’esterno !!) nascondevano tanti altri aspetti molto più delicati, compromettenti e di rilevanza assoluta sia sul piano politico che  giudiziario. Dunque agli inizi del 1992 (esattamente il 17 febbraio) scoppia la tangentopoli nazionale con l’inchiesta “Mani Pulite” portata avanti dalla Procura della Repubblica di Milano e dal pool con la punta avanzata di Antonio Di Pietro. Incomincia a crollare il sistema politico che si reggeva sull’alleanza DC-PSI allargata agli altri tre (PLI, PRI e PSDI) per quel famoso, o famigerato, “pentapartito” di governo. Tra maggio e luglio, sempre del 1992, arrivarono le due stragi mafiose di Capaci (Falcone e la scorta) e di Via D’Amelio (Borsellino e la scorta) che sconvolsero l’assetto politico nazionale e locale. Probabilmente dopo quelle stragi lo Stato comincia a trattare con la mafia, ma questa ovviamente è soltanto una supposizione che deve ancora trovare una sua sedimentazione processuale. Tra la fine del ’92 e gli inizi del ’93, mentre la tangentopoli sconquassa il quadro politico, la stessa politica cerca di fare un salto di qualità e di salvare il salvabile andando a Canossa e chiedendo una tregua armata ai capi bastone della criminalità organizzata nazionale ed internazionale. Cosa c’entra Salerno ? dirà qualcuno. C’entra e come. La Procura di Salerno, in quel preciso momento storico, è la seconda in Italia ad amministrare e gestire il maggior numero di pentiti di camorra, mafia e ‘ndrangheta ed alcuni di questi, tra i più noti e pericolosi (da Raffaele Cutolo a Pasquale Galasso, da Carmine Alfieri a Giovanni Maiale, per finire a Pinuccio Cillari ed altri medi e piccoli personaggi) incominciavano a sciogliersi come neve al sole e depositavano una quantità enorme di dichiarazioni e riscontri nelle mani di alcuni magistrati salernitani: Alfredo Greco, Leonida Primicerio, Ennio Bonadies, Michelangelo Russo, Vito Di Nicola, Luigi D’Alessio e Antonio Scarpa. Le rivelazioni erano così scottanti che anche per questi magistrati era necessario un appoggio sostanziale da parte dello Stato per poter andare avanti. Ed ecco che a Salerno, in tribunale, arriva la mattina del 6 marzo 1993 l’allora ministro della giustizia Giovanni Battista Conso per una visita presentata come doverosa e di sostegno da parte dello Stato per quei coraggiosi magistrati che con la loro azione si erano attirati addosso anche le invidie con specifiche accuse dei magistrati napoletani che ricorsero anche al CSM contro i colleghi salernitani. Ma la visita, forse,  nascondeva ben altro, cioè “la valutazione in termini quantitativi e qualitativi” dei segreti confessati da quei potenti camorristi che avevano dirette ramificazioni con la mafia siciliana e mondiale. Sarà stato soltanto un caso ma proprio nel tardo pomeriggio di quel 6 marzo 1993 il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dott. Nicolò Amato (allora magistrato, poi avvocato di Ciancimino), inviò al capo di gabinetto del ministro della giustizia (che in quel momento era ancora a Salerno !!) l’appunto n. 115077 con il titolo “Organizzazione e rapporti di lavoro”. In quei 75 fogli dell’appunto c’è solo routine, ma alla pag. 59 Amato apre un capitolo cruciale e inquietante al tempo stesso e scrive di “revisione dei decreti ministeriali emanati a partire dal luglio ’92 sulla base dell’art 41/bis”. E’ il cuore del documento rimasto per 17 anni negli archivi del ministero della giustizia, fino a quando nel 2010  un cronista di “La Repubblica” ha riportato alla luce. Insomma nell’aria, sette mesi dopo la strage di Borsellino, c’era fretta di revocare il carcere duro ai mafiosi per indurli, probabilmente, alle confessioni più sfrenate verso le presunte verità. Tutto questo passa probabilmente anche per Salerno che sul piano giudiziario opera in stretto contatto con la Procura meneghina. Solo per la cronaca val la pena di ricordare che proprio quel giorno, mentre Conso  era in Procura, il magistrato Michelangelo Russo piomba in Comune e sequestra tutti gli atti della “Cittadella Giudiziaria”. Non bisogna nemmeno trascurare un altro dato importante: nel 1991 era giunta al Ministero della Giustizia anche la salernitana Liliana Ferraro (già magistrato a Palermo e delfina di Giovanni Falcone) con Livia Pomodoro che poi diventerà presidente del Tribunale di Milano. Quale ruolo potrebbe aver rivestito la Ferraro di raccordo con il ministro prima e dopo la sua visita a Salerno ? Difficile rispondere. Si arriva così alla data del 4 novembre 1993 (oltre ventuno anni fa !!) quando il ministro decide di non rinnovare il 41/bis (il carcere duro per i mafiosi), una decisione che a distanza di due decenni è ancora in discussione anche sul piano giudiziario. L’ex ministro Conso, sentito dai pm romani Paolo Guido e Nino Di Matteo, mercoledì 24.11.10, è stato molto vago rifugiandosi tra i non ricordo e la linearità dei suoi decreti. Ma cosa era accaduto dal marzo al novembre dell’anno 1993 ? La risposta più facile è dire che era accaduto di tutto e di più, era caduta la vecchia mafia e la camorra imperante con l’arresto di tutti i capi, da Riina a Galasso e Alfieri, ed era caduta anche la cosiddetta prima repubblica. In questo quadro nebuloso e incerto ora scava la magistratura di Palermo alla ricerca di prove conclamate per affermare che l’accordo “Stato-Mafia” c’è stato realmente e non soltanto in via ipotetica. La storia davanti a noi è ancora lunga, va seguita con attenzione, poi potremo tirare le somme. Somme che avremmo potuto tirare qualche mese fa dopo l’audizione del presidente Napolitano da parte della Corte di Assise di Palermo. Così non è stato. E il “migliorista” Giorgio Napolitano ci ha lasciato tantissimi dubbi.

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