Camorra & Politica/25: giovedì o venerdì nero per Aliberti ?

Aldo Bianchini

SALERNO – Pongo subito la domanda che è contenuta nel titolo: “Giovedì o venerdì nero per Aliberti ?”; non intendo dare lezioni a nessuno ma ancora una volta i titoloni dei giornali hanno scelto la data della pronuncia del riesame per scrivere più agevolmente del “venerdì nero per Aliberti”. Venerdì 25 novembre è soltanto il punto di arrivo dell’inchiesta che sta travolgendo il Comune di Scafati, la vera storia ci dirà invece che la giornata veramente nera per Pasquale Aliberti e per il suo futuro in politica è stata un’altra e più precisamente quella di “giovedì 11 agosto 2016” che si è sviluppata in piena estate ed anche a sua insaputa. Quella mattina il cerchio dell’inchiesta è stato chiuso in maniera brillante dal pm Vincenzo Montemurro mosso da uno straordinario intuito investigativo. Ma prima di spiegare il perché ritengo giuste e doverose alcune precisazioni che potrebbero essere di una certa utilità all’uomo Aliberti (del politico, a questo punto, mi interessa veramente poco !!). Rischia seriamente il carcere Pasquale Aliberti e dopo la pronuncia del Riesame dovrà attrezzarsi al meglio per convincere i giudici della Suprema Corte che (se è vero che ha commesso sbadatamente il reato di “corruzione elettorale) sicuramente non ha nulla a che vedere con il “patto politico-mafioso” che lo sta trascinando in carcere. Per dimostrare la sua estraneità a fatti mafioso-camorristici gli spazi ci sono ancora e ci sono tutti, sarà necessario studiare attentamente le carte sulle quali andranno fatte le necessarie riflessioni per poterne desumere altre e diverse angolazioni di lettura. Quando si parla di carcere, che ovviamente non lo si augura neppure al peggiore dei nemici, bisognerebbe riflettere su che cosa è il carcere e su qual è il fine ultimo di questa istituzione ultramillenaria. Per farlo dobbiamo partire dalla prigione (detta anche galera, carcere, penitenziario, istituto di pena, colloquialmente gattabuia) che è un luogo dove vengono reclusi individui privati della libertà personale in quanto riconosciuti colpevoli di reati per i quali è prevista una pena detentiva. Nei moderni ordinamenti l’irrogazione della pena del carcere avviene dopo un processo; alcune categorie di soggetti possono essere rinchiusi nel luogo di detenzione anche per motivi e cause diverse, ove ciò sia previsto dalla legge. Il termine carcere, secondo alcuni, deriverebbe dal latinocoercere (cioè costringere), secondo altri dall’aramaicocarcar che significa tumulare (riferendosi alla prassi di trattenere i prigionieri in cisterne sotterranee allo scopo di una più facile vigilanza). Negli altri motivi per i quali può essere utilizzato il carcere c’è la “detenzione preventiva”; l’utilizzo superficiale della stessa nella pratica corrente di oggi mi trova nettamente schierato contro. Il carcere a mio avviso deve essere utilizzato ai fini dell’espiazione della pena, certa e conclamata, e non deve mai essere costrizione o tumulazione ma soltanto rieducazione; naturalmente ci sono diversi casi che vanno trattati ben differentemente. E non mi sembra che questa ipotesi possa essere avallata nel caso di specie e più in generale nel caso dei politici sui quali spesso la magistratura si avventa trascurando i principi fondanti della stessa giustizia. Ma perché la magistratura si avventa spesso sui politici con l’esercizio dello strumento della detenzione preventiva ? Le risposte sarebbero tante e andrebbero codificate in base al modello investigativo che ogni pubblico ministero persegue; non credo che esistano p.m. capaci di godere quando arrestano qualcuno. Non credo che questo principio può essere applicato a Salerno e, per la fattispecie, al pm Vincenzo Montemurro che pur essendo ormai identificato come “il pm anticamorra” è fondamentalmente un pm che va alla ricerca della possibile verità attraverso la raccolta di prove che possano formare e consolidare il “castello dell’ipotesi accusatoria”, ma è anche un magistrato che concede preventivamente all’indagato (soprattutto se politico) ogni ampia possibilità di difesa a piede libero ed è aperto ad ogni tipo di collaborazione chiarificatrice. Così come non credo nell’esistenza della figura di un conclamato “sindaco camorrista”, figura che qualcuno vorrebbe a tutti i costi cucire addosso a Pasquale Aliberti che sarà anche un sindaco che ha sbagliato ma che non è un camorrista. L’inchiesta sulle probabili infiltrazioni camorristiche nel Comune di Scafati è costellata di episodi che convalidano la mia ipotesi ricostruttiva; a cominciare dalla mattina del 18 settembre 2015 quando, nell’ambito del blitz della DDA, il sindaco Aliberti poteva essere tranquillamente ammanettato, per continuare con la possibilità di legittima difesa che il pm Montemurro concesse ad Aliberti (su spinta propulsiva dell’allora suo difensore Giovanni Annunziata) e che lo stesso Aliberti sfruttò ma solo parzialmente e non nella maniera più intelligente. Rispetto a tangentopoli qualcosa è cambiato da parte dei P.M. nel modo di esercitare il loro ufficio, soprattutto nelle inchieste di mafia, che cercano sempre di ottenere la più ampia collaborazione possibile dai politici indagati prima di passare alla fase della privazione della libertà personale che è sempre da aborrire. Lo strumento più pregnante per segnare una piena collaborazione è quello delle “dimissioni” che deve essere presentato e utilizzato dalla parte interessata come un passaggio collaborativo decisivo verso l’acquisizione della migliore verità possibile e non come un mero strumento utile soltanto ad evitare la carcerazione. Un personaggio pubblico prima si dimette e poi si difende, ma le dimissioni devono apparire come un momento di grande difesa delle istituzioni che il personaggio pubblico rappresenta. E’ questo il passaggio che Pasquale Aliberti probabilmente fa ancora in tempo a perseguire. Anche se le dimissioni offerte per tempo e in tempi non sospetti e, soprattutto, direttamente nelle mani dell’inquirente (fin dalle battute iniziali dell’inchiesta e non dopo le fasi travagliate della stessa) apparirebbero sempre e comunque più cristalline. Questo Aliberti non l’ha fatto nei tempi dovuti (e come verosimilmente gli era stato consigliato !!) anche se, sembrerà paradossale, l’ordinanza del Tribunale del Riesame gli offre nuovamente la possibilità di farlo, ma senza strombazzamenti e/o passaggi mediatici inutili e controproducenti; sarebbe sufficiente studiare con molta attenzione la “deposizione spontanea” resa giovedi 11 agosto 2016 dall’amministratore comunale Pasquale Coppola direttamente nelle mani del pm Vincenzo Montemurro, assistito in quella occasione soltanto dal mar. ca. Silvio Fierro e non anche dal ten.col. Giulio Pini e/o dal cap. Fausto Iannaccone, come spesso è accaduto nel corso dell’inchiesta fino a ventiquattro ore prima del verdetto del Riesame. Una deposizione, per come la leggo io, assolutamente fondamentale per l’intera inchiesta, quella cioè che chiude il cerchio e completa le indagini. Un vero e proprio colpo da manuale del PM che avendo fiutato la grande importanza del momento lascia (forse !!) addirittura le ferie (siamo all’ 11 di agosto) e piomba negli uffici della Direzione Distrettuale Antimafia per raccogliere le rivelazioni di Coppola ed avere così nella mani il punto di congiunzione che chiude il cerchio che lui stesso aveva cominciato a costruire già da molto tempo (forse da qualche anno e non solo negli ultimi quindici mesi). Ve lo sareste immaginato, voi, un magistrato inquirente che nel pieno della calura estiva ferragostana lascia la più confortante e confortevole sdraio di relax al sole per recarsi al lavoro; ebbene è accaduto e di questo bisogna dargliene atto. Una deposizione raccolta in 67 minuti e composta da 55 righi che va attentamente studiata e ristudiata perché in essa, come sempre accade, ci sono due verità; è necessario individuarle per ricostruire una verità di parte che possa convincere i giudici della Cassazione a non confermare l’utilizzo della carcerazione preventiva in considerazione del fatto che il Riesame sostenendo certezze non ancora conclamate ha lasciato ampi spazi al ricorso difensivo; e poi anche perché con le dimissioni cadono tutti i rischi connessi all’istituzione pubblica e si rilancia l’azione collaborativa dell’indagato. Il Riesame, a mio avviso, ha forzato un po’ troppo la mano sul concetto della “coerenza e linearità” desunto dalle dichiarazioni di alcuni pentiti rispetto a quelle rese in precedenza; il concetto è troppo vasto per poterlo restringere in poche parole. Per questo e, soprattutto, per la nuova analisi della deposizione di Coppola vi do appuntamento alla prossima puntata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *