Le vie di Elea

 

Felice Bianchini junior


SALERNO – In questo breve saggio, procederemo sulla via di elementi certi e incerti, dati di conoscenza acquisiti e parimenti ipotesi, né più né meno conformi al mio odierno desiderio che, alla mia morte, le mie ceneri siano disperse nel mare di Ascea. Ascea è un “luogo”, oggi a sud di Salerno, denominato Velia in epoca romana e ancor prima, in epoca greca, Elea.

L’origine del toponimo, da wikipedia (d’ora in poi  W.), è riscontrata per prima dallo storico e geografo greco Strabone che, nella sua Geografia, parla della città di Elea-Velia, specificando che i Focei, suoi fondatori nella seconda metà del VI secolo (a.e.c.), la chiamarono inizialmente Hyele (῾Υέλη), nome che poi divenne Ele e infine Elea. La fama di Elea appartiene a Parmenide, che tra il VI e il V secolo (a.e.c.) vi fondò una scuola presocratica meglio nota come Scuola eleatica.

Elea?

Fu Parmenide che assunse il nome?

Parmenide è considerato universalmente uno dei primi filosofi della grecità. Con riguardo soprattutto a Parmenide, come una sorta di capostipite, Martin Heidegger parla di tutti coloro che egli definisce “pensatori iniziali”, perché eserciterebbero e quindi svolgono il nodo gordiano del pensiero dell’“inizio”. Ma: la storia dell’inizio non appartiene ai filosofi, né ai sacerdoti – quelli che una volta piuttosto erano definiti, viceversa correttamente, oracoli -, bensì fu, era e continua ad appartenere ai re.

Attraverso le diverse mitologie, dopo la storia della “prima creazione” – che concerne gli dei -, la storia della “seconda creazione” concerne invece il rapporto e quindi l’universo delle relazioni tra gli dei, il dio e gli uomini, e quindi concerne innanzitutto quell’inizio, che qui si diceva, è anche l’inizio heideggeriano. Per la mitologia della Bibbia, questo inizio è, secondo il racconto della storia, l’inizio di Noè e del diluvio. La cui “figura” risale, senz’alcun dubbio particolare, e quindi la sua storia ripete nei tratti essenziali la figura-letteraria del “traghettatore”; che, forse in origine, appartiene comunque al più antico Poema in lingua accadica della tradizione religiosa babilonese, l’Enûma Eliš, trascritto quasi un millennio prima dell’inizio della trascrizione biblica.

E quindi, almeno un nodo fondamentale occorre immediatamente svolgere, e cioè: la trascrizione degli eventi è successiva e avviene a opera di coloro che sanno: scribi, sacerdoti, profeti e oracoli.

Provando quindi a coglierne il messaggio più significativo (fundamentum), i primi versi del poema (I, 1-9) concernono, come anticipato e come accade sempre in ogni mito della creazione, la “prima creazione”; ma, a noi interessano, in particolare qui, i versi che concernono la “seconda creazione” e, a tale proposito, un aiuto prezioso alla comprensione dei brani del testo ci viene ancora una volta da Giorgio de Santillana, Herta von Dechend e il loro mulino di Amleto.

Egli attraversò il cielo e misurò le regioni.

Squadrò il settore di Apsu, la dimora di Nudimmud (Ea),

come signore misurò le dimensioni di Apsu.

La Grande Dimora, sua sembianza, fissò come Esarra,

la Grande Dimora, Esarra, che egli fece come firmamento.

Ad Anu, Enlil ed Ea fece occupare i rispettivi posti (IV, 141-146)

 

Egli costruì stazioni per i grandi dei,

fissando le loro sembianze astrali come costellazioni.

(secondo l’interpretazione di Heidel: i segni dello zodiaco)

Determinò l’anno designando le zone:

costituì tre costellazioni per ciascuno dei dodici mesi.

Definiti i giorni dell’anno (per mezzo) di figure (celesti)

Fondò la stazione di Neberu per determinare le loro fasce (celesti),

affinché nessuno potesse trasgredire o essere in difetto.

A fianco costituì le stazioni di Enlil e di Ea (V, 1-8).

 

Alta eressero la testa dell’Esagila pari ad Apsu.

Avendo edificato una torre alta quanto Apsu,

vi posero una dimora per Marduk, Enlil (ed) Ea (VI, 62-64).

 

In breve: 1) Colui (sing.) che dà le misure di Apsu è anche colui (sing.) che costruì stazioni per i grandi dei (plur.) fissando le loro sembianze astrali come costellazioni e che destina e fissa per sé la Grande Dimora, che fece come firmamento 2) Egli è anche colui (sing.) che fondò le stazioni di Neberu e a fianco di Enlil e di Ea 3) Nello stesso spazio di Apsu, (plur.) posero anche una dimora per Marduk, Enlil (ed) Ea.

E dunque, siamo sempre in presenza di un Luogo.

 

Altro nodo fondamentale da svolgere è il fatto che il protagonista della Storia e delle storie, a guida degli dei (che rappresentano la Potenza), è colui che, più di tutti, a immagine e somiglianza del dio (in Atto), conclude l’e-vento, e cioè: il re. E dunque; non il dio dei sacerdoti, né il dio dei filosofi, bensì il dio dei re.

E così, indietro nel tempo, sarà possibile risalire all’oriente di Ka (Veda) e in occidente, dopo la sconfitta dei Sumeri, portata da Elam, l’ascesa al trono di El (e degli Elohim), nuovi toponimi delle dimore o stazioni “divine”, fissate una volta per sempre (e cioè a partire dalla stazione di Neberu) affinché nessuno potesse trasgredire o essere in difetto.

 

Possiamo quindi immaginare che EL-EA sia la dimora di El (prima, Enlil) e di Ea (prima, Enki)? Senz’altro, ma quale ne sarebbe il fondamento?

 

In una nota dell’opera citata, Il mulino di Amleto, è riportato: E’ improbabile che riusciremo a trovare il tempo, nel presente saggio, per dare un’adeguata trattazione dell’Universo tripartito, ma possiamo perlomeno affermare questo: esso risale alle “Vie di Anu, Enlil ed Ea” dell’astronomia babilonese.

 

Facile, è pertanto qui, l’accostamento del brano ad alcuni brani dei frammenti, pervenuteci, del Poema di Parmenide, e in particolare ai frammenti 2 e 3:

 

Ecco ora che ti dico, e tu fa’ tesoro del detto,

quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili:

l’una com’“è”, e come impossibile sia che “non sia”,

di persuasione è la strada, ché a verità s’accompagna,

l’altra come “non è”, come sia necessario “non sia”,

che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere:

mai capiresti ciò che “non è”, è cosa impossibile,

né definirlo potresti … (Frammento 2)

 

Immaginando che, in base alle premesse di cui al frammento 2, al frammento 3 Egli concluda:

 

… Lo stesso è capire ed “essere”.

 

Da notare che l’aggettivo tradotto con “pensabili” del frammento 2 e l’infinito tradotto con “capire” del frammento 3 nel testo originario derivano dalla stessa radice νόη(ε). Così che le due vie”pensabili” potrebbero assimilarsi alle vie di Enlil e Ea, altresì le due stazioni costituite a fianco di Neberu.

 

Riporta ancora de Santillana che “la “Via di Enlil” corre parallela a quella di Anu (Anum o Anu in accadico era il dio celeste della mitologia mesopotamica. Artefice del creato, deus otiosus, è padre degli dei e sposo della dea AntumW.) a nord e la “Via di Ea” fa altrettanto a sud”. E qui, sembrerebbe quasi per inciso, ma vedremo a breve che non lo è affatto: “Inutile dire che a causa dello spostamento processionale dell’incrocio fra eclittica ed equatore, le stelle che si trovano in queste tre ‘Vie’ non sono sempre le stesse”. E quindi, in conclusione:

 

Si direbbe che l’“asse”, ivi compresi il coluro equinoziale e quello solstiziale, attraversi i “ tre mondi”, che sono, per darne una rozza e quanto mai imprecisa definizione:

a) il cielo a nord del Tropico del Cancro, vale a dire il cielo propriamente detto, dimora degli dei;

b) il “mondo abitato” dello zodiaco, compreso fra i due tropici, la dimora dei “vivi”;

c) il cielo a sud del Tropico del Capricorno, ossia l’Oceano d’Acqua Dolce, il regno dei morti.

In successione, le tre dimore di: El-Elea-Ea. Elea, il regno appunto di Parmenide.

 

A valere, secondo i sacerdoti: il paradiso, la terra e gli inferi. A valere, secondo i filosofi: il principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Ma qui, avrebbe sentenziato Plutarco, essi si sbagliano. Plutarco, ultimo oracolo di Delfi, altrettanto luogo dei Misteri, come Roberto Calasso dice di Eleusi: I Misteri non sono qualcosa che si possiede, come un pensiero; non sono qualcosa che si applica, come un aformula. Sono un luogo che offre qualcosa di ulteriore ogni volta che vi si torna. Ma per tornarvi occorre allontanarsene, rientrare nella vita comune – e poi lasciarla di nuovo.

 

Ah, per finire, quasi dimenticavo la sentenza di Plutarco: L’essenza e il potere di questi fenomeni vanno ricercati nella natura e nella materia, dicono i sapienti, salvaguardando però, come è giusto, la loro origine divina. È assurdo e puerile credere che il dio stesso, come i ventriloqui soprannominati un tempo Euricli e oggi Pitoni, entri nel corpo dei profeti e parli servendosi della loro bocca e della loro voce come strumenti. Chi mescola dio alle funzioni umane non rispetta la sua maestà, e offende la dignità e il prestigio della sua, superiore statura ». « Hai ragione » disse Cleombroto. « Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in qual modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell’opinione di alcuni il dio non c’entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà. Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri. Quanto alla morte di questi esseri, io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto”. « A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo, che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore. In molti avevano assistito al fatto, e ben presto la sua fama si sparse per Roma. L’imperatore Tiberio, allora, mandò a chiamare Tamo, e tanta fu la sua fede nel racconto del marinaio che volle informarsi e fare indagini su questo Pari: i filologi di corte congetturarono che fosse il figlio di Ermes e Penelope». (Plutarco, Il tramonto degli oracoli, in Dialoghi delfici, trad. di M. Cavalli, Adelphi, Milano 1995)

 

 

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