Principi di correttezza e buona fede applicabili ai contratti della pubblica amministrazione anche ‘’a parti invertite’’.

Dr. Pietro Cusati

(Giurista – Giornalista)

Roma ,5 gennaio 2021 .Con una recente  sentenza del 31 dicembre 2020, n.8546,il  Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale,Sezione Seconda,o Giudici di Palazzo Spada hanno  ritenuto infondato ,nel merito, l’appello proposto da un Comune , in persona del Sindaco pro tempore, contro una Società,in persona del legale rappresentante pro tempore, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale , resa tra le parti, concernente il risarcimento danni conseguiti all’annullamento dell’aggiudicazione di un servizio di ristorazione, per causa riconducibile all’aggiudicatario,Art. 1337 cod. civ.,per comportamento reticente tenuto dalla Società nel rendere le dichiarazioni propedeutiche alla partecipazione alla gara. ‘’Sia l’Amministrazione che il privato sono tenuti a comportarsi secondo i principi di correttezza e buona fede nelle trattative, la tutela dell’aspettativa della pubblica amministrazione, tuttavia, non può identificarsi in quella della “libertà di autodeterminazione negoziale”, in quanto la stessa è chiamata a muoversi all’interno di un quadro procedimentale rigorosamente predeterminato, stante la commistione tra regole di diritto pubblico e regole di diritto privato che connota tipicamente l’ambito della contrattualistica pubblica, perché possa dirsi lesa l’aspettativa qualificata della pubblica amministrazione è pertanto necessario che il privato abbia rafforzato colpevolmente la fiducia dell’Amministrazione nel buon esito del procedimento, la mancata stipula del contratto che consegua all’annullamento dell’aggiudicazione può costituire un fatto riconducibile allo stesso idoneo a far “scattare” i meccanismi speciali di tutela rinforzata previsti dal legislatore , la c.d. “garanzia a prima richiesta” ex art. 93,  d.lgs. n. 50 del 2016, ma perché a ciò consegua anche il risarcimento degli ulteriori danni subiti devono sussistere anche i rimanenti presupposti dell’illecito civile’’. ​​​​​​Al fine di valutare la sussistenza dell’illecito, tuttavia, devono comunque essere utilizzate a “parti invertite” e con i necessari adattamenti tutte le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza con riferimento alla condotta della pubblica amministrazione; pertanto anche il privato fruisce della “esimente” della complessità giuridica di un istituto, laddove il suo corretto inquadramento sia alla base del comportamento che gli viene addebitato dalla controparte pubblica .Ha aggiunto la Sezione che al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, devono comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza “a parti rovesciate”, non limitandosi alla operatività a discolpa (anche) del privato della “esimente” della «obiettiva situazione di incertezza circa le corrette determinazioni (pubblicistiche) da assumere».La commistione tra regole pubblicistiche e regole privatistiche che ne connota la disciplina, infatti, sì da renderle operanti non in sequenza temporale, ma in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione, ben giustificano l’approccio osmotico a categorie concettuali tipiche del diritto privato da parte dei titolari di pubblici poteri. (Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237). Da qui la rilevanza attribuita a quelle di correttezza, che non possono pertanto essere relegate soltanto ad una o più delle singole fasi in cui si suddivide una gara, ma le permeano nella loro interezza, in quanto le stesse, oltre che intrise di aspetti pubblicistici e privatistici, sono tutte pur sempre teleologicamente orientate all’unico fine della stipulazione del contratto. Prima della quale, dunque, il loro rispetto non può che riguardare le “trattative”, il “contatto” più o meno intensamente qualificato nelle quali esse si sono circostanziate, a seconda del grado di sviluppo del procedimento.La differenza tra violazione delle regole pubblicistiche e civilistiche risiede nel fatto che la prima, in quanto riferita all’esercizio diretto ed immediato del potere, impatta sul provvedimento, determinandone, di regola, l’invalidità; l’altra, invece, si riferisce al comportamento, seppur collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere, complessivamente tenuto dalla stazione appaltante o dall’amministrazione aggiudicatrice nel corso della gara e la loro violazione genera non invalidità provvedimentale, ma responsabilità. Il che non può non valere anche con riferimento alla condotta del privato, seppure a sua volta destinata a confluire in atti dell’Amministrazione. Essa, dunque, va egualmente valutata alla stregua della rispondenza ai richiamati canoni di correttezza comportamentale, non potendo certo porsi sullo stesso piano un errore o una dimenticanza o una scelta determinata da errore di diritto scusabile, e un’altra, consapevolmente volta invece a trarre in inganno il contraente pubblico. Diversamente opinando, si arriverebbe al paradosso di “punire” con maggior rigore la condotta che abbia inciso in via “mediata” su un provvedimento, rispetto a quella ascrivibile direttamente al funzionario preposto ad esprimere la volontà dell’Amministrazione, la cui responsabilità, espressamente evocata in caso di annullamento d’ufficio dal portato testuale del comma 1 dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, rientra comunque nella normale perimetrazione della colpevolezza.Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito e il danno subito. Essendo tuttavia la Pubblica Amministrazione chiamata a muoversi anche all’interno di un quadro procedimentale rigorosamente predeterminato fin dalla fase della scelta del contraente, non gode certo della medesima “libertà di autodeterminazione” riconosciuta e tutelata nel privato se non nel senso della tutela dell’affidamento riposto nel buon esito delle procedure, scongiurando fattori di indebito procrastinamento della definizione delle stesse e conseguentemente dell’interesse pubblico sotteso all’attivazione della procedura concorsuale. Affinché, tuttavia, tale generica aspettativa di buon esito intrinseca all’esercizio di qualsivoglia funzione pubblica, venga attinta dal comportamento del privato è necessario che quest’ultimo abbia colpevolmente orientato le scelte (sbagliate) dell’Amministrazione.  Il paradigma cui ascrivere la fattispecie quanto meno in termini astratti è quello della responsabilità precontrattuale, collocandosi il comportamento che ha causato l’evento dannoso nella fase antecedente la stipula del contratto pubblico, nella quale il Comune, prima ancora che la Società, aveva fatto affidamento per garantire l’attivazione del servizio di mensa nella tempistica preventivata in connessione con la tipologia del luogo di effettuazione dello stesso (un Centro estivo) e se la Società abbia commesso il fatto illecito che le viene addebitato, che nel caso di specie si risolve nello stabilire se la condotta tenuta dal procuratore speciale possa essergli anche colposamente ascritta in relazione al vizio che ha poi portato all’annullamento dell’aggiudicazione. Infatti, ove si dovesse escludere la sussistenza di un illecito, diventerebbe del tutto irrilevante verificare se sia stato cagionato un danno risarcibile. D’altro canto il legislatore, quand’anche si è preoccupato di porre limiti temporali all’esercizio dell’autotutela, ha codificato una deroga al canone di azione dei 18 mesi massimo laddove il privato abbia ottenuto fraudolentemente dall’Amministrazione i titoli oggetto di autotutela.

Va infine ricordato, quale ulteriore fattore di confusione, come al momento della dichiarazione effettuata nella gara in oggetto, i reati finanziari imputati al procuratore della Società non erano più tali, in quanto depenalizzati dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Vero è che a norma dell’art. 673 c.p.p., in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adotta i provvedimenti conseguenti. La peculiarità della vicenda giustifica la compensazione delle spese del grado di giudizio.

 

 

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