Se questa è la riforma del processo civile:

 

da Giuseppe Amorelli

(avvocato – scrittore)

DECRETO LEGISLATIVO 10 OTTOBRE 2022 N. 149 contiene le norme che riformano il processo civile in Italia allo scopo di ridurne il numero e i tempi di svolgimento del processo stesso. E’ tuttavia  opinione diffusa  secondo cui i veri problemi della grave crisi in atto non sono teorico-normativi ma ordinamentali e organizzativi .La ex  Ministra della Giustizia, Cartabia, in ossequio alle richieste di cui al  P.N.R.R., nominava una commissione di esperti, indicando loro con precisione i limiti del loro compito: ovvero individuare quali fossero i settori che incidevano sui grossi numeri di processi civili e di conseguenza la stessa  si occupasse solo dei settori così individuati, analizzando questi settori  che determinavano aumenti anomali del numero dei relativi processi e l’allungamento dei tempi di definizione. Tuttavia la Commissione è andata oltre intervenendo in settori che destabilizzano il “sistema processuale”. All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, il Primo Presidente della Cassazione, Pietro Curzio , nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, invocava  l’intervento del legislatore «per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione».  In questa prospettiva il Presidente Curzio riteneva e ritiene che in ambito civile debba essere valorizzata la mediazione «nelle sue molteplici potenzialità», Si individua dunque un sistema costituito  da strumenti di “risoluzione extra-giudiziale”,  per dare una  soluzione  ai ritardi  del sistema giudiziario alle  domanda di giustizia che promana dai cittadini e dalle imprese. Ovvero si percorre la strada di rafforzare gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie  rendendoli effettivamente preferibili all’azione giudiziaria.

Ma nel testo dell’art. 111 si parla di “giusto processo regolato dalla legge”, di svolgimento del processo “nel contraddittorio delle parti in condizioni di parità”, di “giudice terzo ed imparziale”, di sua ragionevole durata Giusto processo è stato anche interpretato come sinonimo di processo corretto.

La riforma della giustizia civile non la si realizza . prevedendo e rafforzando strumenti alternativi al processo, ponendo in essere una sorta di “giurisdizione volontaria” o addirittura una rinuncia alla giurisdizione o intervenendo con   modifiche tecniche di natura procedurale, ma la si realizza efficacemente   intervenendo precipuamente sulle  questioni strutturali, sui i  mezzi. sulla   organizzazione. La riforma  deve riguardare e prevedere congrue e adeguate  risorse umane e tecniche necessarie affinchè un processo possa celebrarsi nel rispetto delle garanzie costituzionali . Il cittadino che entra in un tribunale ha diritto di sapere quali sono le regole con le quali viene giudicato, e questo è quello che prevede la stessa nostra carta costituzionale, laddove sancisce che il processo deve essere regolato dalla legge, e che tutti devono essere trattati allo stesso modo, con garanzie di contraddittorio e difesa predeterminate e non riconosciute fattispecie per fattispecie, e se del caso, dal giudice (artt. 3, 24 e 111 Cost.).

La “Riforma  Cartabia”  rappresenta un  approccio ministeriale eccessivamente burocratico in uno  al “programma Strasburgo” ovvero il  progetto organizzativo di gestione dei processi civili.

Infatti La Legge 15 luglio 2011, n. 111 all’ art. 37. Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie  per evitare il “rischio della legge Pinto”   ha imposto di dare priorità alla trattazione delle cause ultradecennali, senza considerare il dramma di chi chiede giustizia perché ne ha bisogno subito. L’’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, deve essere improntato invece di guisa che  il Giudice   adotti criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto non solo  della durata della causa, anche con riferimento  agli eventuali gradi di giudizio precedenti ,nonché della natura e del valore della stessa. Ragion per cui alla luce di una realistica rilettura dell’art. de quo nel senso che la trattazione di un giudizio debba avvenire tenendo conto della natura dello stesso, del valore e non solo della sua anzianità , si rende   necessario elaborare un programma di definizione di determinati procedimenti, per i quali l’ordinamento ha espressamente previsto una “corsia preferenziale” e così non è stato. Infatti si pensi all’art. 702 bis cpc.

La L. 18 giugno 2009 n. 69 ha introdotto nell’ordinamento italiano un istituto di grande importanza in ottica di abbreviazione del contenzioso civile, il cd. procedimento sommario di cognizione. Il vero obiettivo di tale nuovo istituto è quello di velocizzare e semplificare quanto più possibile le forme del procedimento di cognizione, cercando, nello stesso tempo di rispettare principi costituzionali che ne devono regolare lo svolgimento, come il giusto processo, il principio del contraddittorio, uguaglianza dei diritti delle parti e l’imparzialità del giudice Detto procedimento è stato completamente snaturato e mortificato nella sua ratio verificandosi, paradossalmente una forma di “illegalità” perpetrata dal giudicante, in quanto i tempi di definizione sono quelli ordinari.

il nuovo art. 696 bis c.p.c. è uno strumento alternativo di risoluzione della controversia a scopo deflattivo del contenzioso civile e con fini, dunque, espressamente e primariamente conciliativi.  La finalità del procedimento de quo  si desume dalla complessiva disciplina dell’istituto e dalla stessa rubrica consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, ed impone alle parti uno speciale impegno nell’individuazione di una soluzione transattiva, anche in considerazione del fatto che la corsia preferenziale accordata dall’ordinamento processuale, che consente l’effettuazione dell’accertamento tecnico con notevole riduzione dei tempi rispetto al giudizio ordinario, è giustificata dalla finalità deflattiva che si intende conseguire tramite la conciliazione. Detto istituto, nella prassi,  viene anch’esso trattato come se fosse un procedimento ordinario anzichè  valorizzarne la sua efficacia.

Effettiva attuazione dell’art. 185 bis cpc

PROPOSTA DI CONCILIAZIONE DEL GIUDICE – è stato aggiunto dall’art.77 del D.L. 21 giugno 2013, n.69, entrato in vigore il 22 giugno 2013 e convertito in legge, con modificazioni dalla legge 20 agosto 2013, n.194 e testualmente sancisce che “Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando e’ esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non puo’ costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice“. Appare evidente che anche questa norma è in linea con gli altri provvedimenti decretati per incentivare la conciliazione delle controversie, limitando il carico gravoso dei processi pendenti.  la norma è stata formulata in termini imperativi nel senso che il giudice “deve” avanzare alle parti una proposta conciliativa. Appare ragionevole pensare che il giudice alla prima udienza non abbia ancora chiaro la situazione processuale delle parti per poter formulare una proposta “ congrua “ per le parti in causaBisogna sottolineare che la proposta conciliativa di cui all’art. 185-bis cpc, specie nei processi la cui durata ha superato il termine ragionevole di tre anni (previsto per il giudizio di primo grado, dall’art. 55, comma 2 bis, del Dl 22 giugno 2012 n.83  -cd. decreto sviluppo – convertito dalla legge 7 agosto 2012 n. 83) – se anche non servisse a definire la lite – potrebbe conseguire l’effetto di escludere la possibilità per le parti che l’avessero rifiutata di richiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo, stante il disposto dell’art. 2, comma 2 quinques della legge 24 marzo 2001 n.89 (cd. legge Pinto), come sostituito dall’art. 55, del Dl 83/2012, convertito nella legge 134/2012 che prevede che: «Non e’ riconosciuto alcun indennizzo: … b) nel caso di cui all’articolo 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile; …» cioè quando la domanda è accolta in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa.

L’effettiva attuazione della proposta di conciliazione da parte del giudice, presuppone che Costui, abbia avuto una “conoscenza” degli atti di causa. Tuttavia questo non avviene, anzi il contrario i giudizi vengo rinviati sic et simpliciter senza alcuna pur sommaria delibazione  anche perché in alcuni casi il Giudice ha un eccessivo carico di lavoro.

Secondo il Prof. Andrea Proto Pisani:  la legge sulla riforma del processo civile  è di una  incostituzionalità manifesta. L’appello ad esempio è una  vera e propria “infamia” della riforma. Infatti è stato rilevato che nella “riforma” si fa riferimento alla espressione che i fatti negli atti devono essere esposti:” in modo chiaro, specifico.” A pena di inammissibilità. Questa espressione rimette la parte alla piena discrezionalità del giudice . Le parti di conseguenza subiscono 2l’inammisibilita” basata sul potere del giudice. Sostiene ancora il Prof. Proto Pisani, giustamente,  che “stante la condivisibilità  del principio di civiltà codificato dall’art.156 c.p.c. che individua nel requisito dello scopo del singolo atto processuale il metro della validità-invalidità del singolo atto del processo, un’apertura indiscriminata alla discrezionalità del giudice è anche de iure condito insostenibile. Concluderei quindi nel senso di immediata rimessione alla Corte costituzionale di disposizioni che sanzionano con nullità o inammissibilità o improcedibilità, di atti formulati con parole generiche sì ma non tanto da impedire al giudice lo scopo, l’impugnazione della sentenza di primo o secondo grado”.

Il legislatore, negli anni, ha pensato di risolvere il problema delle lungaggini del processo civile  introducendo un sistema di norme di preclusioni. Tale  sistema di norme di preclusione era stato già un obiettivo del codice di procedura civile del 1942, ma fu proprio l’Avvocatura di quel tempo, con a capo Piero  Calamandrei che con la novella del 1950 lo spazzo via. Oggi l’avvocatura è rimasta silente, inerme, di fronte gli innumerevoli interventi legislativi che hanno dilaniato il codice di procedura civile senza ottenere il risultato prefissato, ridurre i tempi del processo, ma mettendo in pericolo i diritti delle parti, ovvero dei cittadini. In una logica di sbilanciamento dei rapporti che sempre si erano invece dati nella giustizia civile, le riforme degli ultimi venti anni hanno trasformato la natura del processo civile.

Già la riforma del ’90 (legge 353/1990), superando la novella del ’50 (legge 581/1950), reintroduceva le preclusioni, riscrivendo gli artt. 183 e 167 cpc per il primo grado, e l’art. 345 cpc per il grado di appello. Ulteriori restrizioni sono state quelle della soppressione del reclamo avverso le ordinanze istruttorie prima previsto dall’art. 178 cpc, l’istituzione del giudice monocratico in primo grado, con la soppressione delle garanzie del collegio, una nuova riscrittura dell’art. 167 cpc con la riforma del 2005, le restrizioni in punto di eccezione di incompetenza ex art. 38 a seguito della riforma del 2009, la riforma degli artt. 91 e 92 in punto di spese processuali, con l’introduzione del 3° comma dell’art. 96 cpc volto a sanzionare l’abuso del processo.

Nel 1999 viene introdotto nel codice di procedura civile il capo terzo bis, ovvero gli artt. 281 bis e ss., ed in particolare l’art. 281 sexies cpc. Quest’ultima disposizione, come è noto, consente la chiusura del processo in forma semplificata, senza che gli avvocati possano redigere le consuete comparse conclusionali e di replica.

Si è provveduto poi a ridurre tutti i termini processuali, con modifiche degli artt. 50, 305, 307, 327 cpc, come se la riduzione dei termini processuali potesse essere momento di riduzione dei tempi del processo, o di riduzione del lavoro del giudice.

In particolare è stato ridotto il termine lungo per impugnare, e addirittura oggi si pensa ad una riforma che annulli del tutto i termini lunghi, e lasci solo quelli brevi dopo la comunicazione integrale del provvedimento da parte della cancelleria via Pec.

Nel 2009 si è introdotto per la prima volta il processo sommario di cui all’art. 702 bis e ss. cpc, nel quale il giudice «procede nel modo che ritiene più opportuno» e chiude il procedimento con ordinanza.

Nel 2010 è stato approvato il decreto legislativo sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, che oggi, in forza dell’art. 5, 2° comma d.lgs 28/2010, consente al giudice di mandare in mediazione le parti contro la loro volontà in ogni controversia, con uno strumento che può essere utilizzato anche solo per rinviare la discussione di merito e/o la decisione della controversia.

Nel 2012 è stato riformato il giudizio di appello, con la riscrittura dell’art. 342 cpc e l’introduzione degli artt. 348 bis e ter cpc, e sempre nel 2012 è stato escluso il controllo in cassazione sulla motivazione con la riscrittura dell’art. 360 n. 5 cpc; infine nel 2016 si è (sostanzialmente) proceduto all’abolizione dell’udienza pubblica in cassazione

Oggi si propone  la riduzione dei termini processuali dati alle parti per il deposito delle memorie integrative e per gli atti conclusivi del giudizio ordinario di primo grado, potrebbe determinare non poche difficoltà ai difensori nella completa stesura delle difese. Del resto, e per altro verso, è a tutti noto che la speditezza dei giudizi non dipende tanto dalla maggior o minor lunghezza dei termini processuali assegnati alle parti per il compimento degli atti, ma dalla distanza temporale intercorrente fra una udienza del giudizio e quella successiva; distanza che consegue al maggior o minor intasamento dell’agenda del giudice. La sensazione è dunque che si tenti di rovesciare sulle parti e sui difensori problemi che attengono invece all’organizzazione interna degli uffici giudiziari, e che dovrebbero dunque essere risolti con altre e più appropriate modalità.

In ogni caso va riaffermato che il processo civile serve per l’attuazione dei diritti soggettivi delle parti, non altro, e che tutto ciò deve avvenire sì con regole predeterminate, ma in seno a principi di libertà.

Occorre invece  ritornare al passato e recuperare i principi fondati del processo civile .Ogni legge processuale deve rappresentare il punto di equilibrio fra due esigenze che in ogni campo dell’attività umana assai volte si trovano in conflitto, il presto e il bene: l’esigenza di una decisione pronta, e l’esigenza, spesso contrastante, di una decisione giusta. Tra queste due esigenze, la concezione pubblicistica del processo porta naturalmente a dare la prevalenza alla seconda. Cosi si esprimeva Piero Calamandrei, un principio ancora oggi valido e al quale bisogna attenersi- Piero Calamandrei sostiene che, seppur le regole del processo non siano altro che «massime di logica e di buon senso», è tuttavia coessenziale ad un sistema democratico che queste vengano espressamente codificate, e che l’intero procedimento sia, in ogni suo aspetto e momento, regolato dalla legge. La ragione è evidente: così come il diritto sostanziale deve essere eguale per tutti, allo stesso modo deve essere il diritto processuale; e il diritto processuale riesce ad essere effettivamente e concretamente eguale per tutti solo se il processo non è rimesso alla libertà delle parti o alla discrezionalità del giudice.

Tutta la storia del processo, dalle formulae del diritto romano, alle positiones del diritto comune, dagli statuti italiani alle coutumes francesi, è, in sostanza, fino a giungere alle codificazioni, la storia della trasformazione della pratica giudiziaria in diritto processuale…Allora, se si vuol dar credito alla sentenza dei giudici, si cominciano a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare che essa sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitrio, ma della ragione»

Costituisce infatti irrinunciabile garanzia di civiltà quella di poter conoscere previamente le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale (il c.d. giusto processo regolato dalla legge), di modo che ogni cittadino possa far conto, quando vaglia la soglia di un’aula di giustizia, proprio su quello svolgimento, senza sorprese e senza incognite.Se la legge rinuncia invece a regolare il processo, e rimettere ogni regola processuale alla sola discrezionalità del giudice, la conseguenza è quella di giungere alla «abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà» Cosi ancora Calamandrei, nell’ Abolizione del processo civile, Riv. Dir. proc., 1939, I, 386.

Si tratta di sottolineare che se la cognizione del processo procede a discrezione del giudice, la parte non ha più alcuna garanzia circa il diritto alla difesa, al contraddittorio e alla prova, perché non ha alcuna garanzia che contro di lui non si creino a sorpresa preclusioni che non sono previste nel codice, non ha (soprattutto l’attore ricorrente) garanzie circa la possibilità, i tempi e i modi di coinvolgere nel processo soggetti terzi, o di proporre controdomande, non ha più garanzia di poter scrivere memorie istruttorie e aver tempo e possibilità di controdedurre mezzi di prova, non ha garanzie circa i tempi di produzione dei documenti, non ha garanzie circa la possibilità di depositare comparse conclusionali o altri scritti difensionali.

Al contrario, si ritiene oggi che tutto debba passare attraverso il potere discrezionale del giudice, si ritiene debba essere il giudice l’artefice delle norme processuali, e si ritiene altresì che oggetto del processo, in massima parte, non siano i diritti soggettivi dei litiganti ma la volontà oggettiva delle leggi.

L’avvocatura quindi, in primo luogo è chiamata a questa “giusta battaglia di civiltà” in difesa  dei diritti inviolabili  del cittadino, in difesa quindi dei principi democratici   sanciti dalla nostra Carta costituzionale. La riforma del processo civile si attua potenziando le risorse umane e tecniche quindi in senso strutturale del sistema, adeguandolo alla domanda di giustizia che promana  dai cittadini della validità-invalidità del singolo atto del processo, un’apertura indiscriminata alla discrezionalità del giudice è anche de iure condito insostenibile.

I profili di incostituzionalità sono insiti nella struttura della riforma. La volontà  che promana dalla Carta Costituzionale è quella di realizzare un processo, sia esso civile che penale il cui protagonista è l’uomo, non le carte. Principio di civiltà giuridica  affermato con forza, da sempre  dalla cultura giuridica italiana, l’Avvocatura, in primis, e divenuto patrimonio comune di moltissimi paesi. Fu ancora una volta Piero Calamandrei ad affermare con decisione che :” lo studio del processo è sterile astrazione se non è lo studio dell’uomo:”

 

 

 

 

 

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