A BIALA PODLASKA RIMASERO IN 145 A RESISTERE

 

da Matteo Claudio Zarrella

(già magistrato e presidente Tribunale Lagonegro)

Nel gelido lager della Polonia la razione alimentare giornaliera era commisurata a mille calorie. Si diceva: troppo poco per vivere, troppo per morire. Ed anche al di sotto, fino alle settecento calorie. Era un sistema studiato per indurre prigionieri stremati all’apatia, alla depressione, fiaccarne la volontà e lo spirito di resistenza. Il prigioniero preoccupato unicamente di sopravvivere si sarebbe chiuso nell’egoismo e nell’isolamento. La resistenza sarebbe stata inutile se isolata e non collettiva. Per tenersi in vita e integrare il minimo delle mille calorie gli internati dovevano ingurgitare una disgustosa sbobba, minestra acquosa di rape, due-tre patate, un pane di pessima qualità e avanzi di cucina furtivamente sottratti, frugando nell’immondizia. Gli internati erano attenti e sospettosi quando l’ufficiale della camerata, addetto alla distribuzione, affondava il mestolo nella pentola. All’internato spettava un mestolo e mezzo di sbobba. Si voleva che il mestolo s’immergesse nel fondo a cogliere la parte più densa e nutriente. Veniva distribuita ad ogni gruppo di dieci internati una rotonda pagnotta, divisibile in dieci parti. L’addetto alla distribuzione piantava un chiodo di legno al centro del pane che divideva in dieci porzioni per dieci internati. Si litigava per la consistenza delle porzioni. In mancanza di un sicuro calibro di misurazione sulla grandezza delle due-tre patate da assegnare ad ogni internato, succedevano immancabili proteste e litigi. I prigionieri si contendevano anche le briciole. Albino, non litigioso di natura, si teneva in disparte, aspettando il suo turno. In disparte si teneva Walter Lazzaro che Albino conosceva “dai tempi di Tirana”. Il tenente Lazzaro si trovava all’ospedale di Tirana quando, nella sera dell’8 settembre, venne rastrellato e fatto prigioniero dai tedeschi. Nel lager di Dortmund Lazzaro si faceva notare per una certa alterigia, l’aria distaccata, l’espressione assorta. Era un pittore divenuto famoso per aver impersonato Raffaello nel film “La fornarina”. Così somigliante a Raffaello che pareva un Raffaello redivivo, finito nell’incubo di quel mondo infernale. A Biala Podlaska barattava la sua arte con doni di “mangereccia”, come scriveva, rassicurante, alla moglie. Smerciava ritratti. Ne ricavava patate, carta, colori per dipingere, matite, gessetti. Esercitava l’arte raffigurando prigionieri ripresi nella loro triste solitudine. Ne verrà fuori, come si dirà, un “Diario per immagini”. Si esercitava pure nell’arte della recitazione rappresentando, nel “teatro” del lager, “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello. Una intensa interpretazione sulla precarietà dell’esistenza. Anche Renzo Biasion, sottotenente di fanteria, s’adattava a barattare in cambio di pane i suoi disegni con inchiostro di china che, all’aperto, si gelava. Con l’arte della penna riusciva meglio a ritrarre: il susseguirsi dei pali, le torri di vedetta, il disegno di ombre curve e infreddolite, tutte uguali al fine di rendere la piatta uniformità della disperazione. Il grigio putrido di ogni cosa. Quel senso di marciume e di avanzo di gavetta. Ombre che s’aggirano senza pace, come alla ricerca di cose introvabili. E questo cielo così basso, così pesante da schiacciare quasi le baracche. E il senso, al di fuori, di una campagna sterminata. E la noia delle attese interminabili, nel tempo che non scorre, e di una lontananza immensa. Un altro pittore girava nel lager di Biala Podlaska. Era Aniello Eco. I suoi ritratti evocavano la miseria di una popolazione di eterni sudditi della Storia. A Biala, internati d’origine lucana avevano fatto gruppo, unendosi attorno ad “un giornale parlato”, detto “La voce di San Gerardo”, di otto pagine, con spunti umoristici, con un curato stile grafico, con illustrazioni a pastello e ad acquerello. Diceva Sinisgalli: i lucani dove vanno fanno il nido. Si trascorse un Natale triste. Non si sarebbe potuto sopportare un altro Natale come quello del ’43.

È la mattina di giovedì 25 novembre 1943 quando, all’adunata, l’ufficiale della conta annunciava una notizia clamorosa. Agli internati era data possibilità di uscire dai reticolati per andare a lavorare fuori, liberi di muoversi in città con il solo obbligo di presentarsi periodicamente al comando tedesco. La novità scuoteva gli animi degli internati. Il giorno dopo, un 26 novembre di pioggia fitta, i prigionieri decisero di non decidere. Una proposta sin troppo allettante per non nascondere insidie. Il Sabato 27 novembre annotava: Sono pochi gli aderenti alla proposta di lavoro. È il 28 novembre: nella baracca adattata a chiesa, si celebrava la prima domenica d’avvento. Gli ufficiali internati assistevano, pacificati, ad una messa cantata. Due violini ed una fisarmonica accompagnavano un coro di cantori. Usciti dalla baracca-chiesa, il lager riprese a dettare le sue regole. La fame mordeva lo stomaco e la coscienza dell’internato. Il freddo, fino a 20, 30 gradi sottozero gelava il corpo mal coperto dal lurido pastrano. In quella situazione di fame, di freddo, di depressione morale, giunse nel campo, inaspettata, una Commissione fascista di assistenza. Agli internati si distribuirono sigarette “tre Stelle” (quattro pacchetti a testa). A capo della Commissione era Vaccari che parlava con gli internati non stando sul podio ma conversando e dando consigli. Diceva d’esser interessato al rimpatrio degli internati. Pareva sincero. Fu così che, prima timidamente in piccole file, poi a migliaia, in lunghe file, 2.770 ufficiali italiani internati decisero di firmare l’adesione. Quelli del No, guardati a vista da carcerieri armati, rimasero in 145. I nuovi aderenti spiegavano le loro ragioni. Lazzaro diceva d’esser preoccupato per le sorti della famiglia abitante in una Roma esposta ai bombardamenti degli “alleati”. Biasion diceva d’esser stanco di tirare la cinghia e di mangiare la brodaglia di rape e le tre patate. Si perse di vista Aniello Eco. Smise di parlare la “Voce di San Gerardo”. I resistenti videro incolonnati tra i partenti compagni con i quali avevano condiviso paure, sentimenti e confidenze. Ai 145 Il lager di Biala Podlaska si mostrò più livido, più immenso e desolato che mai.

 

 

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