IL “MIO” PROCESSO TORTORA (VI PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(penalista – cassazioni sta)

Una veduta di Torraca (SA) il paese dove l'avv. Giovanni Falci (nato a Salerno) ha trascorso gran parte della sua infanzia - la sua casa è quella in primo piano con gli archi

A fine giugno/inizio luglio, terminato il dibattimento vero e proprio, anche se, come si è visto c’era stato poco da dibattersi di fronte al muro di gomma dei “non confermo e non smentisco”, la parola venne data al P.M. il dott. Diego Marmo per la sua requisitoria: era iniziata la fase processuale della “discussione” della causa. Il Presidente indicò una serie di udienze successive alla requisitoria dedicate alle “arringhe” degli avvocati e ci esortò a metterci d’accordo tra di noi in ordine al turno di ciascuno intervento. Si raccomandò che tutto terminasse per la fine del mese di luglio perché avrebbe voluto emettere la sentenza prima della fase di sospensione feriale che ha inizio il 1 agosto.

E’ chiaro che quell’invito fu disatteso perché non tutti gli avvocati poterono, o vollero rispettare il proprio turno di intervento e fu perciò necessario proseguire il processo anche a settembre fino al 17, giorno in cui fu pubblicata la sentenza mediante lettura del dispositivo in udienza.

C’è da dire che questa della “discussione” è una questioni in cui gli avvocati sono alquanto intransigenti. C’è una sorta di gelosia e di preclusione a far intervenire qualcuno, fosse anche il Presidente del Tribunale o della Corte, in questa fase che viene da sempre considerata il cuore della nostra professione.

Il giudice non può “permettersi” di dare regole e imporre orari e giorni all’esercizio di una funzione che è solo ed esclusivamente nostra.

E’ una cosa nostra che non ammette incursioni da parte di nessuno!

Ce cassette audio autentiche, sulle quali veniva registrato il processo

Non di rado, perciò, e soprattutto con i giudici “antipatici” (lo dico ovviamente in tono scherzoso), c’è un certo gusto nel far saltare il piano che questi ci avrebbero voluto imporre. In quel processo, questa regola non scritta ed anche un po’ infantile, venne rispettata in pieno.

Alla seconda delle 5 udienze dedicate alla difesa, si capì che, mai il processo sarebbe potuto finire il 31 luglio. Fu perciò rifatto il “calendario” delle discussioni e, Falci fu inserito come prima discussione nella mattina del 31 luglio 1985.

Mi recai, ovviamente, ad ascoltare la requisitoria del P.M. che durò diverse ore e che, dopo una parte generale in cui si dedicò ad esporre i principi che, secondo la sua prospettiva, avrebbero dovuto regolare la valutazione della prova in questi tipi di processo, passò ad analizzare le singole posizioni.

Per la verità di “singole” posizioni analizzò per l’80% quella di Enzo Tortora, per il 5% quella di Franco Califano, per il 5% quella dei c.d. politici, per il 5% quella dei c.d. “colletti bianchi” come ad esempio l’avvocato di Cutolo, per l’ultimo 5% quello degli “altri” tra cui i miei (P.A.) al quadrato.

Vedete, di questo processo, si è sempre e solo parlato della posizione di Enzo Tortora, e mi sembra anche giusto; poco però è conosciuto dal grande pubblico di questa enorme folla di imputati che erano presenti nel processo e per i quali quel P.M. chiese condanne per decine e decine di anni di carcere.

Tutti sanno che il dott. Diego Marmo con le bretelle che si vedevano sotto la toga e con la saliva che gli affiorava sul lato destro della bocca e davanti a un ventilatore celeste puntato sulla sua persona, ebbe a pronunciare parole pesanti e anche offensive nei confronti di Tortora, ma nessuno sa che per i miei (P.A.) al quadrato non pronunciò neanche una parola.

Più o meno si espresse nel seguente modo: per gli altri imputati, sulla scorta del ragionamento svolto, e in applicazione dei principi enunciati chiedo la condanna a …… di carcere.

E’ vero che la richiesta del P.M. non è vincolante e che il Tribunale può accoglierla e disattenderla, però per una persona che sta in carcere da 2 anni sentirsi definire “altri”, e che deve rimanere in carcere non è proprio il massimo.

Ricordo che avevo preso appunti in quell’aula caldissima senza aria condizionata e con qualche ventilatore posizionato qua e là. Alla fine però mi resi conto che era stato inutile perché il signore dei microfoni, quello che stava nella consolle da D.J., ci disse, mentre lasciavamo l’aula che avremmo potuto acquistare la cassetta con la registrazione della requisitoria al prezzo di 1000 lire.

avv. Alfonso Martucci

Aggiunse che la registrazione era perfetta perché effettuata direttamente dal microfono di chi parla e quindi senza i fruscii di sottofondo.

Ritirai la cassetta in parola alla udienza successiva cui andai perché parlava Rodolfo Viserta e mi faceva piacere testimoniargli la mia stima e il mio affetto, e, perché no, volevo anche prendere qualche spunto utile per la mia difesa.

Conservo ancora la cassetta della requisitoria in formato “micro cassetta” come mi fu consegnata dal tecnico dell’impianto fonico e conservo anche la cassetta con la mia discussione che prenotai in quello stesso momento pagando in anticipo le 1000 lire.

Appresi, infatti, in quella occasione, che anche le arringhe degli avvocati sarebbero state registrate su richiesta di molti miei colleghi che avevano già fatto domanda del loro intervento su supporto magnetico.

Non so se era o meno legale questa procedura, so che solamente a Napoli poteva venire l’idea fare il “commercio” delle arringhe.

Ritornando alla requisitoria, appena terminata non ebbi l’occasione di salutare Enzo Tortora perché, dopo la richiesta ad 10 anni  di reclusione e dopo le parole feroci e sicuramente fuori posto che il P.M. aveva pronunciato nei confronti di questo imputato, di questa “persona per bene”, una calca di giornalisti della carta stampata e della televisione si era riversata tutta addosso a lui quasi soffocandolo e mi ostacolò anche la sola visione di Enzo Tortora.

Quello che avevo da dirgli e che mi ero appuntato su un taccuino durante la requisitoria, glielo dissi in seguito, appena lo rividi al solito posto, davanti l’ingresso della “Ticino”, anzi glielo feci vedere sul taccuino.

Sig. Tortora guardi che ne penso della requisitoria, e aprii il foglio su cui c’era scritto di mio pugno: E.T. (che stava per Enzo Tortora) exusatio non petita accusatio manifesta.

avv. Aldo Cafiero

Gli dissi: ma se la prova è così evidente e schiacciante perché ci ha girato intorno per tanto tempo, evidentemente più che chiedere una condanna, con quella diarrea di parole, ha voluto giustificare, quindi si è voluto scusare di una cosa che non andava fatta o, quantomeno è molto, ma veramente molto discutibile(diarrea=scarica; ho già avuto problemi con un PM una volta che usai questo termine per definire una sua lunga richiesta e perciò voglio subito chiarire il senso del termine).

Comunque con quella mini cassetta in tasca e con altri appunti che presi durante la discussione perfetta, centrata, di Rodolfo rientrai a Salerno in un luglio particolarmente torrido come si usa dire di quei luglio in cui non vai al mare ma sei costretto a lavorare.

Rodolfo aveva discusso bene, molto bene, e soprattutto aveva discusso in modo moderna. Nessun cedimento a retorica o a parole ricercate, ad effetto; molti e intelligenti richiami a giurisprudenza di merito e di legittimità.

Proprio così, Rodolfo già all’epoca discuteva come si fa oggi e conferiva al suo intervento la sostanza di ragionamenti supportati da pronunce di altri giudici. Questo è stato il suo stile in quella fase iniziale della nostra professione e questo è quello che lo contrassegna ancora oggi, non ha dovuto cambiare con il nuovo codice.

Ad ogni modo, dopo che mi feci le copie delle sentenze commentate da Rodolfo, nel tragitto in autostrada Napoli/Salerno iniziai a riflettere sulla difficoltà di quel processo.

Per prima cosa vorrei dire che oggi, più di ieri, si vietano tante cose quando si è alla guida di un’automobile, ma forse il legislatore non ha mai riflettuto che una cosa molto pericolosa è “pensare” mentre si conduce l’auto.

Quei cartelli posizionati in autostrada “quando guidi, guida e basta”, prendono in considerazione l’uso del telefono che, per carità, è pericolosissimo, ma come si fa a inibire a una persona di “pensare”? E pure, ve lo assicuro, “pensare” intensamente è pericoloso come posso garantirvi io che quel giorno, sbagliai ad imboccare la tangenziale e me ne accorsi quando ero già arrivato a Fuorigrotta.

A cosa pensavo? Innanzitutto a non fare una brutta figura!

In quel processo c’erano tutti i più grandi avvocati d’Italia.

Ogni discussione, specie di noi giovani, era una sorte di esame di laurea. Non che loro, i “grandi”, ci avessero criticato o ci aspettassero al varco, anzi ci aiutavano e ci incoraggiavano, eravamo proprio noi, o per lo meno, io sicuramente, che non volevamo deludere al cospetto di questi giganti.

E allora il primo problema era trovare un argomento nuovo specie per me che arrivavo il 31 luglio dopo che per lo meno altri 50 avvocati avevano affrontato l’unico tema: l’attendibilità dei pentiti e la valutazione delle loro dichiarazioni.

avv. Vincenzo Maria Siniscalchi

Quella mattina in cui discusse Rodolfo, tutti e 10 i difensori avevano praticamente ripetuto solo questo tema, chi meglio e chi peggio, avevano tutti parlato dei pentiti. Non era, perciò, facile.

Certo era anche meno impegnativo sul piano della responsabilità verso il cliente: se non avessi reso al massimo potevo sempre contare su quello che avrebbero detto sul punto attendibilità e valutazione i vari Vincenzo Maria Siniscalchi, Alberto Dall’Ora, Aldo Cafiero, Alfonso Maria Stile, Giuseppe Gianzi, Alfonso Martucci, Renato Orefice, Luigi Palumbo (gigino), Michele Cerabona, Sergio Cola, Alberto Simeone, i fratelli Trofino, e tanti altri di cui mi scuso se non li ho nominati.

Poi c’erano di più giovani, ma comunque bravi, Raffaele della Valle e Saverio Senese su tutti, e poi la categoria “pulcini” come si direbbe nel mondo del calcio e cioè Giovanni Falci, Domenico Ciruzzi e Rodolfo Viserta.

Una gran bella squadra che alla fine si dimostrò e risultò anche vincente.

La fase di esaurimento per questo appuntamento fu lunga, era come se si fosse completamente bloccata la mente, gira e rigira, mi trovavo a pensare solo a quello che avevo sentito da Rodolfo e da tutti gli altri avvocati di quel giorno.

In più, c’era un mio personale esame per così dire privato.

Avevo consigliato alla madre di P.A. di nominare, per la discussione, anche il prof. Giuseppe Gianzi che era l’avvocato che aveva ereditato lo studio Vassalli a Roma di cui era socio e che avevo conosciuto in occasione dell’appello della sentenza di assoluzione in I grado della causa che avevo difeso con il grande Giuliano Vassalli in persona.

In effetti, pensai, la signora P. aveva chiesto al mio amico C.B. di conoscere il nome dell’avvocato che aveva vinto la causa del padre e, se vogliamo dirla tutta, ero stato io ma soprattutto se non esclusivamente il prof. Vassalli e allora mi sembrava più che giusto che proponessi questo avvocato insieme a me; in effetti si ripristinava il “doppio” vincente quel famoso processo di Salerno.

Questo aveva, quindi, stabilito che quel giorno avrei parlato subito prima di Gianzi e sotto il suo “controllo”.

Io ho sempre preferito difendere con un altro collega, non appartengo alla categoria dei “gelosi” e, questo perché ho sempre pensato che dividersi le responsabilità ti fa vivere più serenamente. Inoltre consigliare Gianzi a un cliente ti fa stare tranquillo sul fatto che non lo “consegni” ad un aguzzino che approfitta delle disgrazie altrui. L’avvocato va pagato e anche bene, ma il cliente non va maltrattato con richieste che vanno oltre un onorevole compenso.

avv. Alberto Dall'Ora con Enzo Tortora e l'avv. Raffaele Della Valle

Peggio ancora non va imbrogliato, non bisogna farsi pagare ingenerando paure nel proprio assistito, non bisogna ingigantire il caso, aggravarlo oltre il necessario. Ho conosciuto clienti che mi chiedevano di non farli arrestare per reati per i quali non è previsto l’arresto; venivano da altri avvocati che avevano chiesto un “lauto” anticipo per evitare l’arresto che era vietato dalla legge.

Così come è necessario far comprendere al cliente che l’avvocato non viene pagato a tempo, a ore, ma per ottenere il miglior risultato possibile.

E allora se, senza strepitii e lunghe arringhe, si può ottenere il migliore esito per una vicenda, il cliente deve capire che l’avvocato va pagato e anche bene, lo ripeto, anche se ha solo sussurrato una parola e ha depositato una richiesta.

Il tribunale è un luogo di lavoro intellettuale non un palcoscenico dell’Opera!

Tornando al mio luglio 1985 era il mese dopo l’impresa della vittoria del campionato del Verona di Bagnoli, ed era la prima stagione di Maradona in Italia, anzi a Napoli; un luglio senza mondiali o europei di calcio, senza Olimpiadi, ma solo con Wimbledon vinto da Boris Becker che spodestò il mio preferito John McEnroe detentore del titolo; un luglio del mio tormento.

Per vincere questo calo di concentrazione dovuto a un iper allenamento mentale (praticamente pensavo solo a quel giorno), decisi di andare a trascorrere un week end a Torraca il mio paese di origine dove c’è la casa di mio nonno Giovanni che era scomparso da pochi anni.

A luglio a Torraca andavano anche i miei genitori all’epoca ancora in vita, con mia nonna Antonietta che viveva con loro. Questo non era il massimo per una buona concentrazione, ma comunque era sempre meglio che a Salerno, non fosse altro per il clima più fresco (il paese è in collina a 450 mt sul livello del mare) e perché la famiglia ti costringe comunque a impegni nei loro confronti, tipo bagni con mia figlia piccola e altri svaghi serali.

Il prof. Pietro Falci, papà dell'avv. Giovanni

Io andai a Torraca perché io ho bisogno di Torraca. Non ci sono più deserti, non ci sono più isole. Però se ne sente il bisogno. Per capire il mondo, bisogna a volte distrarsi; per servire meglio gli uomini bisogna tenerli un momento a distanza. Ma dove trovare la solitudine necessaria, il lungo respiro in cui si ritrova se stessi?  A Torraca sicuramente. Nelle città ci sono troppi rumori del passato. Questo è il mio bisogno di quel paese. A noi due, con me stesso.

Io avevo già sperimentato questa magia di quel luogo ai tempi dell’università quando trascorsi con il mio amico Vittorio Provenza, una settimana di ritiro “spirituale” per concentrarci sull’esame di procedura civile che dovevamo sostenere nel luglio1978, sempre luglio. Allora a Torraca, in casa, c’era solo mio nonno immobilizzato a letto e accudito dalla vecchia cameriera Titina e, benché fosse un filosofo e lontano anni luce dalle tecniche della procedura civile, era comunque piacevole intrattenerci con lui a scambiare due chiacchiere la sera, dopo la full immersion sui testi di Zanzucchi.

Dopo 7 anni ero di nuovo lì.

E, questa volta dopo le resistenze che dovevo opporre durante il giorno a mia madre che voleva farmi mangiare a tutte le ore (le madri fanno mangiare fin dalla nascita i loro figli e continuano anche se vanno a difendere nelle Corti di Assise); a mia nonna che voleva parlarmi a tutte le ore e suggerirmi brani di teatro da lei praticato in gioventù; finalmente arrivavo alla sera e scambiavo una chiacchiera con mio padre, il figlio di quel mio nonno filosofo.

avv. Alfonso Martucci

Mio padre non era una persona completamente diversa dal padre e da me, molto introverso in privato, ma allegro ed estroverso in compagnia, molto riservato, taciturno. Era laureato in filosofia ma insegnava latino e greco nei licei (all’epoca era in pensione), ma, soprattutto era un pianista: aveva conseguito il diploma di decimo al conservatorio. Viveva per la musica e, nonostante ciò, per rispetto del mio “ritiro” in quei giorni limitò al massimo le sue scorribande sul pianoforte.

Una sera ebbi da quella persona, da quello che meno me lo aspettavo, un “aiuto” per la mia discussione, un aiuto letterario, un aiuto alla sua maniera che riguardava il mondo classico della Grecia che conosceva a menadito.

Gli avevo parlato a Torraca del problema del processo e lui mi aveva guardato con un sorriso sornione quasi a dirmi, ci penso io.

Il mercoledì successivo, nell’entrare in studio a Salerno, di pomeriggio, trovai mio padre in sala d’attesa seduto a fianco di una cliente.

avv. Michele Cerbona

Proprio così, questo era mio padre, nonostante la segretaria avesse insistito perché entrasse dentro da me dove tra l’altro c’era l’aria condizionata, lui aveva preferito la sala d’attesa. Era schivo in tutto.

Mi disse con un sorriso che altrimenti che sala d’attesa è se non si attende?

Appena si fu seduto nello studio mi allungò un libro di quelli rilegati dopo che la copertina si è consumata a furia di consultarli, e mi disse: “tieni, è un testo che raccoglie i discorsi di Lisia. In uno Lisia affronta il problema della credibilità dei delatori. Me ne sono ricordato a Torraca quando parlavi dei pentiti. Vedi se ti può essere utile”.

prof. Alfonso Stile

Aggiunse, con quel sorriso appena accennato che faceva quando voleva sfotterti, che mi aveva piegato la pagina sul discorso che mi interessava e mi aveva anche scritto con la sua Olivetti la traduzione in italiano per “semplificarmi il compito”.

In realtà avrà pensato che ci avrei messo 5/6 ore a tradurre il testo.

Mio padre se ne andò subito, forse doveva correre a suonare, aveva fatto tutto quello che aveva potuto, ma non immaginava che con quel libro mi fece anticipare quello che nell’ultima udienza del processo recitò, di Lisia, niente di meno che Alberto Dall’Ora uno dei più grandi avvocati che ho sentito discutere in vita mia, l’avvocato di Enzo Tortora.

Mio padre non mi aveva fatto vincere la causa, mi aveva fatto fare una bella figura, e, forse questo vuole un padre da un figlio.

Il 31 luglio partii di buon ora per Napoli: ero il primo a prendere la parola quel giorno.

A dopo

Giovanni Falci

 

 

 

 

 

 

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