GIUSTIZIA: scarcerazioni facili e polemiche … da Tommaso Pellegrino a Catello Maresca, passando per Giovanni Falci

Aldo Bianchini

Tommaso Pellegrino (sindaco di Sassano e presidente del Parco Nazionale)

SALERNO – Questa volta Tommaso Pellegrino (sindaco di Sassano e presidente del Parco Nazionale) ha centrato un obiettivo preciso che sul piano nazionale è, da sempre, di grande impatto sociale, ovvero la scarcerazione per motivi di salute dei boss della criminalità organizzata.

La sua petizione, prima, sottoscritta insieme ad Angelica Saggese (entrambi coordinatori provinciali di Italia Viva, il movimento renziano) per ottenere la ricerca della eventuale responsabilità a carico di chi poteva decidere diversamente e non l’ha fatto. Nel mirino, ovviamente, il capo del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dr. Francesco Basentini, magistrato già aggiunto Procuratore a Palermo, chiamato a Roma alla direzione appunto del Dap, organismo a cui spettava valutare la situazione sanitaria del recluso eccellente Pasquale Zagaria (fratello del temibile Michele) e poi decidere sulla sua scarcerazione come opportunamente i due magistrati sardi avevano chiesto.

L’appostazione, poi, della sua foto (sempre Pellegrino) su f.b., in data 28 aprile 2020, con la seguente didascalia “28 apr ·  · NO alle scarcerazioni dei boss della camorra e della mafia Io sto con il nostro Cittadino Onorario, Catello Maresca, tra i Magistrati italiani più impegnati nella lotta alle mafie. #catellomaresca #antimafia”.

Catello Maresca, magistrato anticamorra che ha arrestato il "clan Zagaria" del casalesi

Nel mezzo, la mattina del 28 aprile scorso il mio articolo “Coronavirus: Catello Maresca … quando i magistrati sanno fare i magistrati !!” nel contesto del quale descrivevo la trasmissione televisiva (Non è l’arena) nel contesto della quale c’era stato lo scontro tra due magistrati: Maresca e Basentini con una presa di posizione durissima del magistrato anticamorra, Maresca, che aveva arrestato il clan Zagaria tra i più potenti d’Europa.

 

Dino Petralia, magistrato a capo del DAP

La richiesta di Pellegrino e Saggese, la trasmissione televisiva, lo scontro tra due magistrati e la ricostruzione di tutto con il mio articolo non poteva non avere delle ripercussioni pesanti; e se non c’è stata nessuna inchiesta come volevano Pellegrino e Maresca ci sono state, però, le dimissione irrevocabili del direttore del DAP Francesco Basentini; e già al suo posto è stato nominato il dr. Dino Petralia (già Procuratore Generale a Reggio Calabria e prima ancora già Procuratore Aggiunti di Palermo) che dovrà lavorare in una sorta di team con il dr. Roberto Tartaglia (già pm antimafia) che il ministro Bonafede aveva nominato vice di Basentini non più di un paio di settimane fa, inoltre i due dovrebbero coordinarsi con la Procura Nazionale Antimafia. Insomma una “cabina di regia” che come tutte le cabine in Italia difficilmente funzionerà. Ma vedremo !!

 

Francesco Basentini, magistrato già capo del DAP

Ma la foto che Tommaso Pellegrino, con tanto di cartello “io sto con Maresca” non poteva non suscitare commenti e dibattito (ed è qui la scelta politica intelligente del renziano Tommaso), tenendo conto che come foto è stata l’unica d’Italia.

Per un giornale riuscire a far partire un dibattito serio e importante è cosa assai gratificante e ringrazio l’avv. Giovanni Falci (cassazionista e penalista) per averlo avviato con una sua riflessione molto importante; una riflessione che, comunque, rappresenta una linea di pensiero ben preciso e che per questo non può essere assunta come verità assoluta.

Falci, comunque, pone l’accento del suo discorso su alcune cose molto importanti che vanno lette attentamente per poi potersi formare e/o consolidare una propria opinione sulla vicenda molto intricata delle “scarcerazioni per motivi di salute anche dei boss al 41/bis” (il famoso carcere duro.

Partendo dall’assunto che la Costituzione vieta che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità è consequenziale avvicinarsi al problema con grande cautela in quanto sono tantissime le linee di pensiero in campo.

Ritengo, però, giusto segnalare ai Voi lettori che, come dice Falci, lo Stato che salvaguarda questi diritti a tutti non è uno Stato debole. Al contrario, è uno Stato forte, uno Stato che sa contrapporre al crimine ed all’illegalità la fermezza dei propri principi, dei propri valori e del proprio livello di  coerenza e credibilità nella tutela dei diritti.  E’ lo Stato di Diritto!

dr. Tommaso Pellegrino

Per chiudere, con la sua azione Tommaso Pellegrino non ha soltanto fatto lievitare il dibattito su un argomento di sicuro respiro nazionale ma è riuscito a trascinare con se tutto il partito di “Italia Viva” che di questo argomento ne farà un cavallo di battaglia parlamentare; e non è poco.

 

 

 

NOTA: Prima di chiudere questo servizio ho assistito alla trasmissione “Non è l’arena” (domenica 3 maggio) nel corso della quale il procuratore Nino Di Matteo ha rilasciato sconvolgenti dichiarazioni sulla nomina del dr. Basentini alla direzione del DAP; dichiarazioni che faranno esplodere una polemica straordinaria in tutto il Paese contro il Governo; e che da questo giornale seguiremo con mota attenzione.

 

 

LE POLEMICHE SULLE “SCARCERAZIONI FACILI”

Avv. Giovanni Falci

avv. Giovanni Falci (penalista - cassazionista)

Si assiste in questi giorni a un serrato dibattito sui provvedimenti adottati da Tribunali di Sorveglianza in materia di esecuzione. Subito si sono sollevate ondate di indignazione e iniziative politiche volte a modificare l’assetto normativo. Vorrei esporre, allora alcune considerazioni che mi metteranno in minoranza perché non condividono il comune sentimento (ci sono abituato). Il problema è che le mie riflessioni sono di cervello e non di pancia e si basano su argomenti legali precisi e non rincorrono i like dei social. Le mie riflessioni vanno nel senso opposto a quelle degli “opinionisti” che sarebbe più appropriato definire “tuttologi”. I loro argomenti sono la retorica e la strumentalizzazione del “dolore delle vittime”.  I miei argomenti sono la Costituzione e le Leggi. E’ fuori dubbio che in presenza di detenuti condannati per l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso ed in regime di 41 bis, il livello di attenzione e di preoccupazione deve essere maggiore. Il problema è che, però, questi rischi concreti da valutare vanno affrontati singolarmente, per ogni situazione detentiva e non in blocco come avviene nei dibattiti degli “opinionisti tuttologi”. Occorre, perciò, ribadire alcuni principi che vengono travolti dalle modalità con le quali si affrontano i dibattiti dopo casi rumorosi.  Qui non si tratta di mancare di rispetto verso chi svolge l’encomiabile lavoro di contrasto della criminalità organizzata e che a volte ha pagato con la propria vita questa missione.  Io sto con loro, ma non solo. E allora, se dovessi dire con chi sto, in una situazione di semplificazione a cui l’attuale sistema a tutti i livelli ci sta abituando, io risponderei come detto in apertura:  “sto dalla parte della Costituzione”. So bene che il riferimento alla Costituzione è quello più abusato, ma mai come in questi tempi occorrerebbe ri-leggerla la Costituzione, o, per molti leggerla e non conoscerla per “sentito dire”. Si è passati in questo periodo di emergenza covid dall’attenzione ai principi costituzionalmente imposti della umanizzazione della pena e della sua funzione rieducativa, alle urla populiste amplificate da una informazione scandalistica e sensazionalistica collegata a casi di cronaca che hanno riguardato detenuti di notevole spessore criminale. E’ subito ritornato quel facile ricorso all’attitudine demagogica nell’affrontare le questioni.  Il risultato sono state le proteste per alcune decisioni della magistratura di sorveglianza con le quali, per esempio, veniva disposto – temporaneamente – il differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare per la cura di gravi patologie nei confronti di reclusi in regime di 41 bis.  Ne è venuto fuori un quadro confuso e, con facili semplificazioni dotate di maggiore effetto comunicativo.

Si sono accomunate situazioni eterogenee e molto distinte tra loro. Premesso che non entro nei singoli casi, voglio svolgere, qui, una valutazione della situazione generale e riflettere su alcuni principi.  Voglio solo evidenziare per una corretta informazione che i provvedimenti discussi dai media sono stati adottati per l’assenza della possibilità di eseguire il trattamento sanitario, per la specifica patologia, all’interno dell’istituto in cui era detenuto il condannato, o in una altra diversa struttura penitenziaria.  Queste notizie, tra l’altro sommarie (chi sa quale era la patologia del boss scarcerato?) hanno scatenato una ondata di stupida e generalizzata indignazione. Si sono perfino attaccati i magistrati che, applicando la legge, hanno emesso i provvedimenti. Il Governo ha immediatamente ritenuto di dover mettere mano ad una riforma che consiste nell’introdurre nel procedimento dinanzi al Tribunale di Sorveglianza il parere della Procura Nazionale Antimafia. Si è trattata della ennesima iniziativa adottata sullo slancio emotivo di singoli casi. Si è voluto tranquillizzare l’opinione pubblica alla quale era stata data in pasto la notizia, senza essere stati sufficientemente chiari nel rendere conto delle motivazioni che giustificano l’adozione di questi  provvedimenti. In realtà questa modifica, concepita sull’onda emotiva, ha finito per depotenziare il Tribunale di Sorveglianza che ha già tutti gli strumenti per verificare il percorso di riabilitazione del detenuto e decidere dopo un’istruttoria completa sull’evoluzione della espiazione della pena. Con questa politica si è confuso il concetto di “certezza della pena” con quello di “esclusività” del modello carcerario della pena.  Un po’ come dire se non si sconta in carcere non è pena e, quindi, non viene garantito la certezza della pena stessa. In effetti, con queste riforme richieste a furor di popolo, invece che il percorso del condannato, si mette al centro dell’attenzione il suo passato criminale. E come se ci fosse una prosecuzione delle indagini o del processo di merito e non una nuova fase. Verrebbe meno il giudizio sull’attualità del percorso intrapreso con l’esecuzione della pena. Che volete che possa dire la Procura Nazionale Antimafia sulla sussistenza dei requisiti per ottenere un beneficio penitenziario? Al più potrà raccontare la storia di quel condannato fino al giorno del suo arresto, ma nulla di utile e pertinente potrà fornire al tribunale di Sorveglianza che non deve giudicare un fatto, ma una persona nel suo sviluppo di recupero.

Deve valutare, cioè, esattamente quello che non conosce la Procura Nazionale Antimafia a cui si chiede il parere. Attraverso questa strada della riforma isterica si mette in discussione la legittima rivendicazione del fine rieducativo della pena previsto dall’ art. 27 della Costituzione.  La questione riguarda la richiesta di detenzione domiciliare per un detenuto gravemente malato che necessita di cure specifiche non praticabili all’interno della struttura. Cosa potrà mai sapere la  Procura Nazionale Antimafia della salute del condannato. Lo conosce da sano, quando commetteva i reati per cui ha riportato le condanne, non sa mica, oggi, attualmente, in che condizioni di salute versa e se può essere curato in carcere. Il nocciolo della questione è il riconoscimento del diritto alla salute che non può essere negato, sbiadito, compresso o trasformato in simulacro di un diritto quando si è in presenza di detenuti.   Anche se riguarda condannati per reati gravi.  Questi ragionamenti non hanno niente a che fare con un perdonismo o con un eccesso di buonismo. Non mi sognerei mai di voler indebolire il principio della certezza della pena né  sottovalutare i rischi relativi alla pericolosità sociale di alcune persone. Sono valutazioni necessarie e doverose a cui nessuno deve derogare.  Tuttavia, a nessun detenuto può essere negato il diritto di curarsi soprattutto quando le gravi patologie dalle quali è affetto necessitano di strutture specifiche idonee al trattamento. La pena non può essere una vendetta consumata con rabbia. Questo non lo dico io. Questo lo leggo nella Costituzione dove la pena è concepita con una funzione tutt’altro che animata da una volontà vendicativa. Questi enunciati, nella troppo invocata (a vanvera) Costituzione, non sono principi derogabili.  Se ci si discosta dalla loro applicazione per tutti e per ciascuno dei detenuti significherebbe tradire proprio la Costituzione che vieta che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.  La Costituzione non è una legge come un’altra e non può essere messa in discussione nei suoi basilari principi sull’onda emotiva di un singolo fatto di cronaca.  La Costituzione è il fondamento di ogni altra legge.  Quando la gravità della patologia non consente una cura all’interno della struttura non si può rinunciare a salvaguardare il diritto alla salute.  O si assicurano all’ interno del circuito penitenziario le cure necessarie o il ricorso all’esterno diventa un dovere, non un atto spregiudicato.

Abbandonare il detenuto nella impossibilità di curare le  gravi patologie da cui è affetto equivale alla negazione del diritto alla salute.  Significa infliggergli una pena disumana. Una condanna a morte anticipata per negazione del diritto al trattamento sanitario.  Va, quindi, ribadito con forza che il diritto alla salute è un diritto che è riconosciuto a tutti. Si, proprio a tutti.  Lo Stato che salvaguarda questi diritti a tutti non è uno Stato debole.  Al contrario, è uno Stato forte, uno Stato che sa contrapporre al crimine ed all’illegalità la fermezza dei propri principi, dei propri valori e del proprio livello di  coerenza e credibilità nella tutela dei diritti.  E’ lo Stato di Diritto!

Giovanni Falci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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