il Quotidiano di Salerno

direttore: Aldo Bianchini

L’ANNO 133 A.C. NEL IMPERO ROMANO E VALLO DI DIANO. LA FIGURA SCOMODA DI TIBERIO GRACCO (III PARTE)

Dr. D’Alessio Michele (Giornalista – Agronomo)

Tiberio Gracco

In questa terza parte di storia Romana con la guida del ormai, familiare Storiografo e scrittore dottore Vitantonio Capozzi di Polla, vediamo la nascita della figura dei tribuni della plebe Tiberio Gracco insieme a suo fratello più giovane, Gaio, che era il frutto di un’unione prestigiosa, quella tra un illustre uomo politico, Sempronio Gracco, e la figlia di Cornelio Scipione l’Africano, colui che aveva sconfitto Annibale. Due gentes, due tradizioni politiche e culturali eccezionali che lasciavano presagire per lui una carriera politica di successo nella Roma del secondo secolo a.C., ormai padrona di un impero mediterraneo, vincitrice della sua secolare avversaria, Cartagine, e pervasa dalla raffinata cultura greca. Invece, i due fratelli Gracchi, nella maggior parte della tradizione letteraria romana, appaiono come dei sovversivi facinorosi, avversari ostinati del Senato di Roma e pericolosi aspiranti a un potere tirannico. Qual è la ragione di tanta contrarietà? Sentiamo le motivazioni dello scrittore Vitantonio Capozzi

“…Il superiore sentimento di giustizia che animava Tiberio Gracco conferisce alla sua figura uno slancio e un coraggio che la proiettano verso il simbolo e verso il mito e fanno di lui il rivoluzionario più appassionato di tutta l’antichità. Egli dunque era fermamente convinto che bisognasse riassegnare un podere ai contadini scacciati dalle campagne. Di contro, qualcuno riteneva che sarebbe stato un errore premiare la pigrizia regalando, a spese dello Stato, la terra a chi non era stato capace di farla fruttare. Tiberio invece tirò diritto sulla propria strada non badando a ciò che dicevano gli altri, nonostante sapesse bene come i ricchi proprietari terrieri non si facessero scrupolo di ricorrere ai mezzi più scorretti, pur di annettere i campi dei confinanti alle loro tenute e come le precedenti assegnazioni avessero sortito effetti benefici e sanato situazioni sociali complicate. Da parte sua, discostandosi dagli insegnamenti pedagogici dello stoico Blossio di Cuma, quando gli parlava della storia greca, preferiva guardare a quella del console Flaminio, lo sconfitto del Trasimeno, il quale, nonostante l’opposizione del senato, riuscì a distribuire, ai poveri dell’Urbe, l’ager gallicus et picenus cioè i terreni confiscati ai Senoni. In teoria il governo romano non avrebbe dovuto fare grandi obiezioni al suo disegno, perché da secoli ormai distribuiva terre ai cittadini più indigenti e agli alleati. Del resto, le motivazioni politiche coloniarie erano piuttosto diverse da quelle che ispiravano Gracco. La scelta degli insediamenti che il governo patrocinava assolvevano ad una funzione strategica di difesa e di consolidamento dei confini dello Stato, mentre quelli auspicati dal tribuno creavano nei cittadini soltanto l’attesa e la pretesa di essere assistiti dal governo. Anche perché l’unico modo di aiutare i poveri era in particolare la distribuzione di terra, che rappresentava la concreta forma d’intervento più conosciuta e più praticata e soprattutto perché la repubblica disponeva in Italia di un ager pubblicus di dimensioni imponenti, acquisito sulla base del principio secondo il quale il territorio di una città o di un paese vinto diventava proprietà del vincitore. E l’Urbe, nel corso dei suoi lunghi secoli di storia, era uscita vittoriosa dalle dispute con le comunità italiche, dichiarando di proprietà pubblica romana un buon terzo delle loro terre. Il guadagno che ne ricavava dal fitto dei terreni distribuiti era iscritto nel bilancio dello Stato e contribuiva in misura non insignificante al suo pareggio.

Prof. Vitantonio Capozzi - scrittore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ager campanus, per esempio, il cui territorio era stato confiscato a Capua in seguito alla defezione in favore di Annibale, forniva un’entrata così cospicua, da far dire a Cicerone, in una lettera ad Attico, di essere preoccupato della sua perdita quando Cesare decise di lottizzarlo tra i poveri e i legionari. In verità, una gran parte di questo terreno pubblico, era stato abbandonato alla occupazione di fatto dei grandi latifondisti romani e italici i quali avevano la possibilità di sfruttarlo, per servirsene come pascolo delle loro mandrie e dei loro greggi. Questa situazione di parassitismo a spese dello Stato comportò una disparità di trattamento clamorosa nei confronti di quei cittadini che non disponevano neppure di un pezzo di terra su cui sopravvivere. Tiberio Gracco perciò rifacendosi a una vecchia legge Licinia che fissava in 500 jugeri (circa 125 ettari) il limite massimo di occupazione di suolo pubblico, propose al senato una nuova legge con la quale si alzava il limite a 1000 jugeri, riconoscendo ai possessori un indennizzo per le spese di migliorie sostenute nel frattempo e trasformando il semplice possesso in proprietà assoluta. Nel contempo però si stabiliva che, dopo la ripartizione, quanto rimaneva di terra demaniale venisse distribuito in piccoli lotti di 30 jugeri (circa sette ettari e mezzo) ai cittadini meno abbienti. Dalla reazione furibonda e scomposta che il disegno di legge provocò tra i senatori, cioè tra i grandi possidenti romani, possiamo intuire a quali vertici fosse arrivata la quantità di demanio accaparrata da questi severi padri della patria. Nonostante la bocciatura del disegno di legge da parte del senato, Tiberio non si lasciò intimorire. È convinto che oramai era giunto il tempo che le assemblee del popolo riprendessero il loro diritto di legiferare, ignorò l’opposizione senatoriale e portò il provvedimento davanti ai comizi tributi. Era già uno sgarro, non tanto alla costituzione perché questa prevedeva che le due assemblee, quella tributa e la centuriata, fossero comunque sovrane nel legiferare, quanto piuttosto alla prassi corrente, che si era consolidata da almeno un secolo in favore della supremazia del senato. Poiché Ottavio uno dei dieci tribuni della plebe, collega di Gracco, aveva posto il veto alla presentazione della legge (fatto che doveva fermarla definitivamente), Tiberio, giocando d’astuzia, chiese che Ottavio venisse deposto dalla sua carica, partendo dall’assunto che era inammissibile che un tribuno eletto per difendere la plebe potesse opporsi a un decreto predisposto ad aiutarla. Poiché per legge tutti i magistrati non potevano essere revocati durante il loro mandato, potevano essere chiamati a rispondere delle loro eventuali malefatte solo a scadenza dell’incarico, non prima, a maggior ragione, qualora si trattasse di un tribuno della plebe che era intoccabile. Evidentemente il ragionamento di Tiberio dovette risultare persuasivo perché l’assemblea votò la deposizione di Ottavio…”. Per adesso ci fermiamo qui, nel prossimo articolo vedremo che la riforma agraria di Tiberio fu accolta ma ci fu la reazione conservatrice sfociò in gravi conflitti che portarono al suo assassinio…alla prossima lettura per dare altri dubiti e altre riflessioni.

 

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