“Il viaggio della speranza”: una piaga nella sanità del sud…

 

Prof. Nicola Femminella (scrittore)

Prof. Nicola Femminella

Anche io, come alcuni miei familiari più stretti e centinaia di cittadini che abitano nei comprensori del Cilento e migliaia che risiedono nelle regioni meridionali, ho varcato le soglie di un ospedale nell’alta Italia, per curare una patologia che “sicuramente al nord avrei affrontato con maggiori probabilità di curarla bene”. E con questa raccomandazione, fattami confidenzialmente dal medico amico, intrapresi molti anni addietro il “viaggio della speranza” sulle tracce di tutti coloro che lo hanno fatto. Con i disagi e i costi che tale consuetudine comporta. Impinguando i bilanci di quegli ospedali lontani e gravando su quelli della nostra Regione. Nel tempo gli è stato anche dato un nome: “Il viaggio della speranza”. Sono trascorsi anni e il fenomeno non è scomparso, ma si è esteso ulteriormente fino allo scoppio del Covid 19, alimentato da un fato che appare inesorabile e cieco e che ha reso impotenti, nel corso di alcuni decenni, coloro che, in possesso di tutti i poteri possibili, avrebbero dovuto porre in atto i rimedi per eliminarlo. In verità, manca perfino un dibattito approfondito sul tema e in casi come questi, accade anche per altre emergenze diffuse nel meridione, si consolida una supina accettazione dell’anomalia, simile alla rassegnazione. Puntualmente, in tutte le occasioni, di cui posso fornire testimonianza, ho avuto modo di ritrovare in quei luoghi di cura fuori regione medici e professori, provenienti anche dal Cilento e dal sud. Tutti affermati e meritevoli di stima per le doti professionali espresse sul campo e per i meriti riconosciuti dall’utenza e dalle direzioni sanitarie, acquisiti nelle corsie e nelle sale operatorie; alcuni, primari e con funzioni apicali. Molti di quelli incontrati mi hanno confessato che, se ne avessero avuto occasione e ci fossero state le condizioni giuste, sarebbero ben volentieri tornati a prestare servizio nelle località di provenienza. Accade, ma di rado e per un numero molto ridotto. Il che mi ha sempre procurato una rabbia in più per questa perdita di bravi operatori ospedalieri che, dopo aver conseguito laurea e specializzazione, hanno lasciato il sud in cerca di un più agevole e confacente inserimento nelle strutture sanitarie del nord. Alcuni, specie quelli che conseguono la laurea nelle università di Milano, Roma, Siena, ecc. restano in quelle sedi, anche per mettere alla prova le competenze apprese a contatto con ambienti più stimolanti e ricchi di opportunità. Altri, dopo aver patito attese e delusioni ad opera del servizio pubblico della sanità nelle regioni meridionali, cercano e trovano occasioni di impiego, prendendo, loro malgrado, la via per il nord, dove danno di sé l’attestazione migliore del proprio impegno. Lasciando le famiglie che avevano immaginato un futuro diverso per sé e i figli. Altri ancora lamentano un reclutamento del personale nelle strutture sanitarie pubbliche tramite assunzioni clientelari, che non mancano in tutte le regioni meridionali, dovute all’invadenza dell’arbitrio politico. L’annosa questione, che penalizza gravemente un settore di primaria importanza per la vita dei cittadini, più di quanto appaia ad una sua analisi non approfondita, interessa anche la categoria di infermieri e paramedici, che ribadiscono la fuga di personale qualificato dal Mezzogiorno d’Italia.

Ritengo utile riportare alcuni dati in numero ridotto, poiché ognuno potrà procurarli in grande quantità sui mezzi di informazione, oltre a rilevarli facilmente, facendo ricorso alle proprie esperienze e a quelle vissute da amici e conoscenti, essendo impietosa e ormai considerevole la cifra dei casi che li evidenzia.

Da L’Espresso del 27 dicembre 2021: “Un bambino che vive nel Mezzogiorno ha un rischio del 70% più elevato di un suo coetaneo di migrare in un’altra regione per potersi curare”, “Tobia ha 4 anni e un tumore al cervello.  Il dottor Domenico Minasi (ospedale di Reggio Calabria) chiama d’urgenza il neurochirurgo, non c’è tempo da perdere. Dopo l’intervento chirurgico eseguito con successo, Tobia viene spedito a Trento per la radioterapia”,  “…al nord ci sono 30 posti letti ogni 100mila bambini, al sud poco più di 10. Quando c’è invece una malattia ad alta complessità solo il 10,5% dei bambini del sud riesce a curarsi dove risiede”.

La mobilità sanitaria, costituita da cittadini italiani che si muovono per cure sanitarie, interessa ogni anno circa un milione di malati e di familiari che si muovono insieme a loro. L’ultimo accordo raggiunto dalla Commissione salute delle regioni in relazione alle compensazioni, ha deciso che tale fenomeno comporta un costo totale di 4,6 miliardi di euro all’anno. In tale fiume di denaro la Lombardia ha un saldo netto positivo di poco più di 800 milioni di euro all’anno, il più alto. Seguono l’Emilia-Romagna con 350 milioni l’anno e il Veneto con 161 milioni netti. Somme ingenti che devono versare le regioni col saldo negativo: la Calabria eroga più di 319 milioni l’anno (in media 150 euro all’anno ciascuno dei suoi abitanti), la Campania 302, la Sicilia 240 milioni. Segnano ugualmente un indice negativo le altre regioni del Meridione d’Italia.

In estrema sintesi l’88% del saldo in attivo costituisce l’entrata di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto; mentre il saldo, pari al 77% di quello passivo, grava su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Gli abitanti delle aree più ricche del Paese prendono dalle più povere e migliorano con tali risorse aggiuntive il proprio servizio e apparato sanitario, dotandosi di strutture sempre più moderne e munendosi di macchinari e strumentazioni di ultima generazione. Ne deriva che gli abitanti di quelle regioni risultano privilegiati e i giovani trovano molteplici occasioni di lavoro, anche per un indotto che scaturisce da un settore che produce ricchezza.  La sanità diventa un bacino macro economico, che non conosce crisi, perché l’attesa di vita media è in rialzo e con essa aumentano le patologie da curare. In tale contesto le strutture pubbliche e private sorte nelle metropoli del nord fanno a gara per garantire servizi di gran qualità, guidate e dirette da un management attento a soddisfare le esigenze dell’utenza e, con esse, le ragioni di profitto dell’azienda. E tale realtà che investe un bisogno primario di tutti i cittadini, che si è strutturata nell’intero Paese nel modo descritto, eleva e accresce ulteriormente la divaricazione socio economica delle due Italie, senza contare i costi umani dell’esodo dei malati e famiglie verso località distanti per i più oltre mille chilometri.

Il fenomeno si mostra con maggiore evidenza, se citiamo il numero dei pazienti in questione, riferiti al 2019. La Lombardia riceve 113.396 malati provenienti da altre regioni, l’Emilia Romagna 80.449, Lazio 43.116, Veneto 43.026 e Toscana 36.670. In maggioranza meridionali. La Campania ne ha accolto 14.670, per lo più campani. Così come Puglia e Calabria che seguono con meno di 4.000. Da rilevare il buon dato della Basilicata che segna 8.272 degenti, tra i quali compaiono molti degenti delle nostre aree cilentane. Il che, ripeto, comporta un gravoso aggravio sui bilanci delle regioni meridionali che devono rimborsare le spese a quelle che offrono ospitalità, cura e farmaci. Si tratta di cifre rilevanti che trasformano gli ospedali e le cliniche accoglienti in vere e proprie industrie della salute con bilanci corposi e mano d’opera impiegata, che creano fatturati, ricavi significativi, occupazione. E nella cura dei tumori l’esodo diventa una migrazione di massa, per cui le implicanze economiche assumono altezze impensabili per le famiglie e per i bilanci delle nostre regioni. Molte migliaia di siciliani, calabresi, pugliesi e campani arrivano a Milano per una lunga e costosa degenza e la somministrazione delle chemioterapie richiede rimborsi cospicui, che dissanguano le casse della sanità meridionale.

(continua)

 

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