Giustizia: come siamo arrivati ai referendum?

 

scritto da Luigi Gravagnuolo il 23 Febbraio 2022 per Gente e Territorio

 

Cominciamo con questo articolo a parlare dei referendum. In sei puntate, una per ciascun quesito più questa introduttiva, riporteremo i testi delle alternative su cui saremo chiamati a votare e ne proporremo le nostre letture critiche.

 

Quella giudiziaria è la più delicata delle tre funzioni-cardine della democrazia. L’opinabilità delle scelte dell’esecutivo e del legislativo è connaturata al concetto stesso di democrazia, il gioco delle maggioranze e delle opposizioni ne è il sale. Che il politico non sia imparziale è consustanziale al concetto stesso di politica.

Non è così per la funzione giudiziaria, opportunamente nel nostro ordinamento non subordinata alle scelte del popolo. In Italia, contrariamente che in alcuni altri Paesi, i giudici non vengono eletti dai cittadini; sono invece dei professionisti del diritto, selezionati attraverso prove concorsuali volte a verificare le competenze giuridiche dei candidati, non le loro opinioni. Il magistrato è indipendente dal giudizio degli elettori, autonomo dal potere politico ed obbligato all’imparzialità nell’esercizio della sua funzione. Se vengono a cadere i requisiti dell’imparzialità, autonomia e indipendenza dei giudici, il palazzo della democrazia si lesiona in uno dei suoi pilastri fondanti.

Ma tali requisiti, per fungere da pilastro stabile della democrazia, oltre che autentici, devono essere anche percepiti come tali dai cittadini. Chi viene sottoposto ad indagine giudiziaria, o subisce un processo, o ancora sporge una denuncia all’autorità giudiziaria, deve avere fiducia che chi sta indagando su di lui e chi lo giudicherà, o chi esaminerà la sua denuncia, sia una persona immune da sentimenti di simpatia o di antipatia, di vicinanza o di lontananza nei confronti suoi e della sua controparte. È quanto giustamente si mette in rilievo quando si afferma che il giudice non deve solo essere imparziale, ma deve anche apparire tale.

Oggi, volenti o nolenti, non è così. Nonostante la dirittura morale e la correttezza professionale della grande maggioranza dei magistrati, la funzione della giustizia viene percepita dalla gran parte dei cittadini come partigiana, permeabile e permeata da interessi estrinseci alla sua mansione, collusa con la politica.

Come si è arrivati a tanto discredito?

Quanto qui argomenterò ha valore meramente soggettivo, racconterò cioè la percezione della magistratura che io e buona parte della mia generazione abbiamo avuto dal ‘68 ad oggi.

Negli anni Sessanta la magistratura fu da noi percepita come un tutt’uno col sistema’. È appena il caso di chiarire che il termine sistema per noi connotava altro rispetto al significato da esso assunto oggi, dopo l’omonimo libro intervista di Sallusti e Palamara. Da noi, giovani di quella stagione, l’apparato dello Stato nel suo insieme, dai Governi al Parlamento, dalle Forze Armate all’Accademia, includendovi la Chiesa, fu percepito come un unico blocco, un monolite, un sistema, cane da guardia della borghesia.

In quegli anni le Procure erano raramente chiamate in causa dai protagonisti della politica per le loro diatribe interne. Il loro impegno era indirizzato al perseguimento dei reati penali o civilistici perpetrati per lo più dai privati. Se e quando la loro azione travalicava questi confini, era per il contrasto alla criminalità organizzata, o al terrorismo, o alle violenze di piazza tra i due estremismi. Con un’attenzione particolare – ed avversa – rivolta all’estremismo di sinistra.

La critica radicale del Sessantotto contro l’ipocrita imparzialità dei giudici, in realtà loro subordinazione al potere politico-economico, che non fu solo verbale – numerosi magistrati furono assassinati in quegli anni di piombo – fece infine breccia nelle file della stessa magistratura. Si aprì una stagione di confronto interno alla categoria, nacquero le correnti con riferimento alle ideologie politiche, Magistratura Democratica, Unicos, Magistratura Indipendente, poi Autonomia e Indipendenza tra le altre.

Magistratura Democratica, in particolare, cominciò a considerare che la funzione giudiziaria dovesse dispiegarsi non solo ex post, una volta che i reati fossero stati consumati, ma anche ex ante, per prevenirli. Le Procure dovevano farsi protagoniste attive per l’affermazione dei principi costituzionali di eguaglianza e di giustizia sociale.

Prese avvio la stagione delle indagini sulle collusioni tra la politica e la criminalità organizzata e sulla corruzione penetrata nei gangli dello Stato a tutti i livelli. Agendo di fatto politicamente, le Procure puntarono conseguentemente alla visibilità del loro lavoro sui mezzi di informazione di massa. Mettere alla gogna mediatica il politico colluso con la mafia o il corrotto avrebbe accresciuto nell’opinione pubblica la coscienza della gravità del problema e creato condizioni favorevoli all’esercizio della funzione inquirente nei confronti di tali reati. I legami tra singoli piemme e singoli giornalisti cominciarono ad infittirsi.

Dopo un po’ la considerazione pubblica della magistratura cambiò, da componente organica al potere fu percepita come baluardo della democrazia. Le Procure divennero nel giro di pochi anni l’unico settore delle istituzioni apprezzato dalla gente e riconosciuto come eticamente inattaccabile. Bastava che un politico ricevesse un avviso di garanzia che, già per il solo fatto di essere stato indagato, veniva condannato dal tribunale del popolo. Tangentopoli, il cui trentennale coincide singolarmente con la celebrazione dei referendum, segnò la fine della prima repubblica.

Le altre correnti ci misero poco a capire come stava cambiando la funzione requirente ed a riorientarsi. Si strinsero così intese sempre più ambigue tra politici e magistrati; le carriere degli uni e degli altri cominciarono a condizionarsi reciprocamente. Magistrati di sinistra che fiancheggiavano i politici della stessa parte e indagavano sui politici di destra, magistrati di destra che ricambiavano con la stessa moneta. E ancora, magistrati che si candidavano alle elezioni politiche e politici che decidevano i destini professionali dei magistrati. La battaglia politica si spostò dalle aule consiliari a quelle dei tribunali.

E siamo all’oggi ed ai referendum sui quali saremo chiamati a pronunziarci. Lo saremo tutti, quelli con la quinta elementare ed i giuristi, la massaia di Voghera e l’accademico della Crusca. Basta leggere i testi dei quesiti – che vi proporremo puntualmente man mano che li analizzeremo – per capire quanto sia abnorme tutto ciò. Se ci si è arrivati, però, la responsabilità unica è dei Governi, del Parlamento e delle resistenze corporative della Magistratura, che in questi anni non hanno avuto né la voglia né la forza di obbedire all’unico imperativo categorico cui erano tenuti: restituire alla giustizia dignità, credibilità, legittimazione popolare.

Forse c’è ancora spazio per un’iniziativa legislativa, chissà. Per parte nostra, dando per scontato che i referendum si terranno, a partire dai prossimi giorni, pur con i nostri limiti, cercheremo di sviscerare i contenuti dei singoli quesiti.

 

 

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