PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: la questione del “merito”

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Nel dibattito in corso sulla scuola uguale per tutti, sulla pubblica amministrazione dei colletti bianchi e sulle promozioni-incarichi riservati a pochi c’è un unico comune e imprescindibile denominatore: il merito, che non può e non deve mai essere legato esclusivamente ai titoli.

Tutti ce ne dobbiamo fare una ragione, il merito deve prevalere anche con tutti i rischi ad esso connessi da scelte individuali che, qualche volta, potrebbero anche non piacere perché dettate da simpatie o antipatie verso il soggetto da giudicare.

Il ministro della funzione pubblica Paolo Zangrillo (fratello del medico personale di Berlusconi ed ottimo dirigente d’azienda) sembra avere le idee chiare ed appare sempre più vicina un decreto per chiarire il concetto di fondo che deve rimanere fuori dalla disputa ideologica tra destra e sinistra sulla necessità del “merito”. In proposito il ministro è stato chiaro: “La Pubblica amministrazione è un motore essenziale del Paese e dobbiamo metterla nelle condizioni di svolgere i propri compiti al meglio. Questo significa in primo luogo semplificare e digitalizzare le procedure – sono 600 quelle su cui il Pnrr ci chiede di intervenire entro il 2026, le prime cento già quest’anno – ma anche disporre di personale competente e in grado di portare avanti le proprie responsabilità. Questo si traduce nella necessità di lavorare per obiettivi e premiare il raggiungimento dei risultati. Una organizzazione che funziona, che vuole essere attrattiva verso i talenti, non può rinunciare a riconoscere e a premiare il merito”.

Nel 1964 io personalmente vinsi il concorso pubblico nell’INAIL. Era l’epoca delle cosiddette “note di qualifica” (forma più o meno edulcorata della valutazione del merito), e alla fine del primo quadrimestre di lavoro (settembre-dicembre 1964) mi ritrovai con un nota di qualifica di gran lunga più bassa dei miei colleghi assunti con lo stesso concorso. Rischiai seriamente di non superare il “periodo di prova” (altro metodo selettivo di peso) nonostante avessi vinto un concorso pubblico. Grazie all’intervento del “direttore di sede” che, contrariamente al parere negativo espresso dalla capo-ufficio che palesemente non mi digeriva, rimasi al mio posto. Qualche anno dopo raggiunsi e superai tutti quei miei colleghi che erano partiti in vantaggio e la stessa capo-ufficio (donna molto intelligente e capace di ricredersi ritornando sulle sue decisioni), divenuta dirigente centrale regionale, mi scelse come formatore dei giovani che mano a mano venivano assunti in varie sedi d’Italia.

Naturalmente il mio percorso di lavoro, con i descritti rischi connessi, non può e non deve essere preso come modello organizzativo per quantificare il livello medio del merito perché nello specifico il rischio di un giudizio ingiusto è più pesante di un semplice e patologico errore generico.

Necessita trovare un sistema più garantista, nel senso che il giudizio non può essere lasciato soltanto alla persona giudicante e/o al titolo che il giudicato possiede; le tecnologie di oggi sono comunque una garanzia.

Ma senza il merito, a mio giudizio, non si va da nessuna parte.

 

 

 

 

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