Note sul mancato sviluppo del Mezzogiorno d’Italia

 

 

da Nicola Femminella (scrittore – storico)

 

Approvato il primo disegno di legge sull’Autonomia Differenziata, mi sembra utile e opportuno rievocare la ricerca realizzata nel giugno dell’anno scorso dalla Banca d’Italia dal titolo “Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico”, per operare una riflessione su tematiche che nel prossimo futuro acquisteranno sempre più rilevanza per il Mezzogiorno d’Italia. La pubblicazione del documento della Banca d’Italia produsse, in quell’inizio dell’estate scorsa, dibattiti e tavole rotonde, ispirando commenti e interesse tra gli studiosi e quanti attratti dall’argomento. In quei giorni ne lessi il contenuto, seppure racchiuso in 97 pagine, con una bibliografia di ben altre 8 a dimostrazione che, per redigerlo, era stato consultato un numero ragguardevole di esperti, tenendo nel dovuto conto gli apporti di quelli più eminenti che hanno scritto libri e reports a riguardo di una tematica ampia, complessa e di rilevanza nazionale, che alimenta e si identifica, in massima parte, con la Questione Meridionale, punto nodale, permanente per l’intero Paese.

A distanza di alcuni mesi provo a focalizzare, mostrando anche qualche mia isolata  considerazione,  i punti salienti e di prominente rilevanza contenuti nel documento della Banca d’Italia che dovrebbe essere più volte letto soprattutto dagli amministratori locali che governano le sorti dei Comuni nel Mezzogiorno d’Italia e dagli imprenditori che qui svolgono le proprie attività, dando per scontato che i rappresentanti delle Regioni, del Governo e delle istituzioni più autorevoli del Meridione abbiano partecipato di sicuro alle iniziative e ai convegni svolti sul tema.

Sono tre i campi, si apprende dall’elaborato, nei quali il sud ha accumulato nel corso dei decenni, a partire dall’Unità d’Italia, ritardi per disattenzioni e negligenze varie dovute a cause esterne ed interne, nonché, aggiungo, per scarso impegno di tutti i suoi abitanti. E sono: 1) il sistema produttivo 2) le infrastrutture e i servizi pubblici 3) la presenza di organizzazioni criminali. Le cause che li hanno resi fattori negativi sono molteplici ed è lungo l’elenco delle occasioni mancate e delle colpe da rovinare addosso a coloro che, avendo responsabilità maggiori, le hanno perpetrate per innumerevoli anni, in buona e cattiva fede.

Vogliamo qui soffermarci sul primo punto, essendo sotto gli occhi di tutti coloro che vivono nel Sud e più facilmente da cogliere gli argomenti contenuti negli altri due punti, perché ognuno li vive nella quotidianità del proprio vivere.

Tali condizioni penalizzanti per le nostre regioni hanno iniziato ad evidenziarsi subito dopo l’affievolirsi del miracolo economico (già erano comparse dopo l’Unità d’Italia), che si ebbe con la rinascita dallo stato rovinoso prodotto dal secondo conflitto mondiale. Fin dagli anni ’70, però, le regioni meridionali mostravano di non poter reggere il passo celere che quelle del nord e del centro (in misura minore) avevano impresso alla propria economia e al sistema della vita civile delle popolazioni, che sempre più rispondeva ai bisogni e alle richieste dei cittadini. Procedendo negli anni, il Meridione non ha conosciuto alcuna inversione di rotta, anzi gli indicatori macroeconomici primari sono peggiorati gradualmente fino a mostrare i dati dal 2010 al 2020 che nel documento ricordano un ulteriore declino a indicare che il divario tra le due parti d’Italia giustamente mantiene la denominazione “Questione Meridionale”, perché il termine “questione” ha un significato più complesso di altri sinonimi. Indica un insieme di problemi con grave indice di difficoltà, di quelli che le nazioni si portano addosso, spesso rassegnate a subirli e destinati a diventare una connotazione storica difficile da eliminare del tutto o in parte. Tanto che la UE riconosce queste pastoie sedimentate nel tempo che gravano sulle comunità e per esse costruisce un capitolo speciale della propria governance, assegnando ingenti somme a sostegno delle regioni d’Europa che le patiscono, con interventi a favore della scuola (i famosi PON) ed altri interventi speciali in vari campi (i miliardi del PNRR). Gli studiosi danno la colpa dell’ultimo arretramento alla crisi finanziaria del 2007 e a quella dei debiti sovrani del 2013; secondo la mia modesta opinione tale affermazione è vera solo in parte. Bisogna aggiungere ai due eventi gli aspetti strutturali e storici che determinano i nostri guai ed altri fenomeni come la classe politica poco avveduta e quelli menzionati nel rapporto della Banca d’Italia. Ma torniamo al settore produttivo. Questo, nel periodo del miracolo economico, in gran parte sostenuto dall’intervento dello Stato, ha mostrato un tasso di crescita simile a quello avutosi nel resto d’Italia, fra l’altro in linea con i Paesi europei. Il risultato si ottenne, ricorda l’elaborato della Banca d’Italia, con gli interventi nelle infrastrutture e con le politiche di industrializzazione che crearono poli produttivi a macchia di leopardo da Trapani alle aree a confine con il Lazio e la parte centrale del Paese tramite le imprese a partecipazione statale. Tale fase di sviluppo, unita alle rimesse consistenti che gli emigranti inviavano alle proprie famiglie nel sud, consentì un significativo rialzo del PIL riferito alle famiglie e una serie di infrastrutture che migliorarono notevolmente le condizioni di vita dei meridionali (basta citare l’autostrada Salerno- Reggio Calabria, iniziata nel 1962 e inaugurata nel 1974).

Prof. Nicola Femminella

Alla fine degli anni ’70 c’è stato un graduale ribasso degli indici economici in Italia rispetto all’Europa, che ha segnato parametri più laceranti per il Sud, dando uno spessore evidente al divario che esso, gradualmente, ha assunto rispetto al Nord. La tendenza continua negli anni ’80 e si inasprisce a partire dal 1992, quando l’Italia fu costretta ad adottare un consolidamento dei conti pubblici, per un debito costantemente in rialzo, che l’UE anche oggi non manca di sottolineare in sede internazionale. Le decisioni che ne scaturirono decretarono l’interruzione degli interventi straordinari e delle partecipazioni statali. Ciò produsse effetti più nocivi nelle nostre regioni, perché il settore produttivo nel frattempo con l’intervento straordinario dello Stato e la linfa vitale ricevuta, non aveva, in realtà, acquisito i risultati pure ipotizzati per lo sviluppo definitivo delle aree industriali e produttive del Mezzogiorno. Queste avevano con sé la mission storica di rendere omogenee le tre aree del nostro Paese in relazione alla loro economia e alle loro condizioni di vita.  Le occasioni mancate…! I soggetti istituzionali che ne avrebbero dovuto disporre e indirizzare le risorse finanziarie verso impieghi virtuosi erano diventati collettori anomali nel disporre e distribuire i finanziamenti elargiti. Una assegnazione di ingenti somme, spesso, senza una visione organica e uno sguardo al futuro, privo finanche di un controllo pressante e di una rendicontazione dovuta, che produceva opere incompiute e cattedrali inutili. Naturalmente tale provvedimento di contenimento della spesa pubblica, esteso nell’intero paese, causò danni maggiore nel Meridione. Qui molte imprese private non erano riuscite a consolidare il proprio valore e i propri obiettivi, né tantomeno a diventare modelli in grado di contaminare positivamente le regioni, per operare radicalmente la trasformazione dell’intero Mezzogiorno come è avvenuto per la Germania dell’Est dopo l’unione in seguito alla caduta del Muro di Berlino nel 1989. Né a creare una presenza solida e consolidata, sicura e sufficiente per assicurare impiego e lavoro alle masse di richiedenti. Una presenza che fosse non solo ben edificata e proiettata verso tempi lunghi, ma portatrice e volano per indotti successivi e ulteriore espansione del tessuto connettivo industriale. Avvenne solo in aree limitate e parzialmente. Nel frattempo, a causa delle dimensioni delle aziende meridionali, molte troppo micro o a conduzione familiare, non si sono avuti nelle imprese presenti a sud, investimenti per la ricerca, in particolare per le nuove tecnologie digitali che si andavano a instaurare nel villaggio globale e che permettono alle società più avanzate di compiere salti poderosi riguardanti la produttività delle imprese e la conquista di ampi mercati internazionali. Neppure le attività di formazione degli addetti da impiegare nelle aziende, in primis la scuola, hanno espresso funzioni e compiti proficui, di gran qualità, in linea con le realtà produttive più evolute. Basta scorrere le rilevazioni fatte dall’OCSE- Pisa ogni tre anni, a partire dal 2000, sugli studenti quindicenni per quanto attiene i livelli nella lettura, matematica e scienze, oppure i risultati INVALSI o analizzare quelli fallimentari delle iniziative Scuola-Lavoro.  È noto, sottolinea il report compilato della Banca, ogni azienda si sviluppa e assume stabilità e dimensioni maggiori, più capacità produttiva e di espansione nei mercati, quando la complementarietà tra le risorse umane impiegate e le capacità manageriali della governance di dotarle di valori alti, strutturali e tecnologici, raggiunge modelli evoluti e assai competitivi. Eppure, non sono mancati da parte del tessuto produttivo meridionale accenni positivi nelle esportazioni e nel turismo negli ultimi cinque anni, nonostante il macigno ostativo del COVID, a dimostrazione delle potenzialità e risorse che pure riusciamo a rendere concrete, quando la buona volontà ci sorregge e sostituisce le carenze strutturali. Ci sono industrie casearie nel Vallo di Diano che oggi riescono a collocare i propri prodotti in America, Germania, finanche in Giappone e Australia, che meritano uno studio e una riflessione, perché possano costituire un esempio da diffondere nei nostri territori. Uguale rilevanze mostrano aziende nella logistica e in altri settori. Lo sta facendo il presidente della Commissione per le Aree Interne, l’on. Michele Cammarano che ogni giovedì visita aziende innovative e coraggiose, per comprenderne i punti di forza e valorizzarle, fino a farle diventare modelli per giovani imprenditori. Riprendendo la disamina degli elementi ostativi che intralciano il sistema produttivo nel Mezzogiorno, il Rapporto ribadisce che nelle nostre macro aree permangono una fragilità delle imprese e un numero insufficiente nel novero delle unità produttive, perché mancano capitali e un ordito di imprese che possano creare un distretto industriale capace di far sorgere quelle aggiuntive dell’indotto, che sia motore in grado di erogare servizi multipli, distribuiti e, soprattutto, aiutare le imprese stesse verso dotazioni tecnologiche oggi indispensabili. Inoltre nel Sud il recupero dei crediti tramite l’amministrazione di una giustizia lenta e farraginosa, la difficoltà di accedere al sostegno erogato dalle banche e il ritardo patologico nel perseguire altri tipi di finanziamento, la burocrazia per avviare nuove attività o espandere quelle esistenti, costituiscono ostacoli duri da abbattere, che frenano alquanto i programmi di coloro che vogliono intraprendere attività imprenditoriali. Anche le modalità di impiego della forza lavoro spesso utilizzano il reclutamento irregolare e il rapporto instabile e precario tra datore di lavoro e occupati. Gli stessi immigrati quando giungono a Lampedusa partono per le regioni del nord o quelle europee, dove il reclutamento è più rispettoso delle regole vigenti, consapevoli che l’offerta di lavoro è maggiore e più conveniente. Ultimamente si è accentuato la fuga dei giovani, per cui l’età media degli occupati è notevolmente superiore a quella del nord. E il fenomeno è ancora più grave se si pensa che a partire sono laureati e diplomati.

Gli organismi, che nelle varie articolazioni dello Stato, sono abilitati a svolgere un fattivo ruolo di sostegno delle imprese e a indirizzarle verso una organizzazione del lavoro orientata e sorretta da concezioni e indirizzi dettati dai tempi nuovi della concorrenza globale, devono costruire, d’intesa con le istituzioni politiche locali, piani di sviluppo  dopo aver studiato e analizzato le risorse di cui gode il Mezzogiorno. Occorre una sorta di Rinascimento socio-economico che non potrà essere fatta di passi lenti e incerti, se l’Autonomia Differenziata rafforzerà la crescita nelle regioni del Nord e se queste imporranno programmi e politiche di espansione prevaricatrice e dominante. Credo che il Cilento tutto dovrà rivolgere la giusta attenzione all’argomento e aprire un dibattito produttivo su tempi e modi delle iniziative da intraprendere. Non è più l’epoca di indugi e incertezze. Ne hanno parlato con il Presidente delle Aree Interne e il Consigliere della Regione Campania i ragazzi dei “Forum dei Giovani” della zona venerdì, 10 febbraio, nel Convento di San Francesco a Vibonati.

 

 

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