Il francese

Andrea Rossi

Quando partii ero un giovanotto pieno di salute e di voglia di lavorare, avevo vent’anni ed un diploma, che mi parve inutile quando non trovai lavoro al mio paese. In Belgio, la promessa era questa, il contratto come minatore durava tre anni. Marcinelle in Belgio era la meta. Mio padre mi accompagnò alla corriera col suo solito fare austero. Lui che di padre ne aveva avuto uno invalidato dalla prima guerra mondiale, tornato a casa senza una gamba, che portavo il pantalone della gamba mancante poggiato sulla spalla e si reggeva su due grucce alle quali avevano fatto un rinforzo in stoffa perché quel suo poggiarsi non fosse doloroso e si spense, il nonno mio, con una medaglia datagli dal Re d’Italia ed una “buona pensione”, a cinquant’otto anni, senza aver mai fatto un sorriso, allucinato dalla vita in trincea, dalla Grande Guerra. Mio padre, quel giorno, mi aiutò a prendere la valigia poggiata per terra, mi aggiustò il colletto della camicia, e così capii quanto dolore provasse nel distaccarsi da me. In treno, mi sentivo addosso il suo odore di sigaretta scadente, tabacco senza filtro, gliele compravo io dal tabaccaio, io il figlio ubbidiente, cinque in una bustina bianca, ( a quei tempi le sigarette le vendevano “sfuse”) e da grande, desiderai tanto che me ne fosse permesso l’uso. Lo feci quando mia madre mi passava qualche soldo, di nascosto da mio padre, non si fumava davanti al padre, era un gesto da non fare. Il treno e la meta, il parlare con gli altri italiani, cercare di farsi capire, perché i dialetti rendevano impossibile la comunicazione. Viaggiare serve anche ad adeguarsi, aiuta tanto, i libri e la scuola fatta nelle città vicina non mi bastavano, ora lo capivo. Dormivamo in case di legno e mattoni, un’accozzaglia di materiali che dovevano rendere il “ghetto” dove alloggiavano i minatori, presentabile. Di Marcinelle si é parlato tanto e dei minatori rimasti nella miniera di carbone, ho visto tante trasmissioni, su questo argomento, anche delle paura che si provava a scendere là sotto, una lampadina sul casco per vedere. Metri e metri e l’ascensore sembrava la forca verso l’inferno e chi non ce la faceva, veniva considerato “lavativo” e c’era pure la prigione, ma a casa, i belgi non ti rimandavano. L’accordo con l’Italia senza lavoro era questo, gli italiani non tornano se non é scaduto il contratto. Molti contrassero la silicosi, malattia polmonare, dovuta alle inalazioni di materiale nocivo. Non era un bel vivere, la domenica ci vestivamo per la festa e passeggiavamo, guardati con stupore dai residenti che nel vestire erano molto trasandati.  I miei anni duri me li vissi tutti, a conforto le lettere di mio padre, il petalo di un fiore secco che mia madre metteva nella busta, le foto dei fratelli, delle sorelle. Quando i colleghi rimasero incastrati sotto terra, io non ero di turno, ma come tutti feci il possibile per aiutare. Gli anni trascorsero ed io me ne tornai al paese con i risparmi da dare amio padre. Me li cucii in una sacchetta di stoffa che ressi con una spilla da balia alle mutande, nel timore che me li sottraessero andavo in bagno il meno possibile. Nella piazza, quando arrivai, c’erano tutti i parenti, non mi davano nemmeno il tempo di scendere dall’autobus, mi chiamavano:”il francese”. Per qualche giorno la gente mi cercava, voleva sapere, conoscere ogni particolare e papà mi faceva da schermo: – é stato e basta- ripeteva.  Una sera eravamo in cucina noi due soli, presi la sacchetta e la mostrai a mio padre e gli dissi: – papà, te li ho portati tutti, per la famiglia – e mio padre rispose: – Useremo il necessario, questo é lavoro tuo, ma tu davanti a me non fumi: –

 

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