Sopra una bottiglia di passata di pomodoro

Salvatore Ganci

Quasi ispirato da “Sopra una conchiglia fossile nel mio studio” di Giacomo Zanella, riflettevo su una bottiglia di passata di pomodoro, sapientemente da me usata per farne un buon sughetto e, anziché metterla nel sacchetto vetro/metallo della “raccolta differenziata”,  l’ho lavata a dovere. Ora queste bottiglie finiscono impietosamente nella spazzatura ordinaria e quando va bene, nella raccolta differenziata. E poi? … Mi sfugge tutto il processo di recupero e riutilizzo di questo “bene” perché di bene si tratta: vetro trasparente di 3 mm di spessore. La si potrebbe benissimo riusare per un sugo di pomodoro già pronto fatto in casa, riutilizzando lo stesso tappo e sterilizzando a dovere. Un tempo la si apriva per il pranzo di Natale, ritrovando nel sugo conservato la freschezza del basilico dell’estate. Poi è venuta la globalizzazione, il timore del botulino e a nessuno verrebbe in mente tutto ciò. La pubblicità ci martella con sughi di varia fattura già pronti all’uso, di “pesti” siciliani che l’isola non aveva  mai conosciuto prima che la parola “pesto” si diffondesse tramite i Media, del classico “pesto alla genovese” pronto, di un verde bietola improprio del basilico e con anacardi in luogo dei pinoli o delle noci. Insomma il paradigma “usa, consuma, getta”. Il “getta” ha incrementato il problema dello smaltimento e i Comuni italiani dopo avere ben vissuto sull’IMU e sulla TARSU ora sono alle prese con nuovi terrificanti acronimi. Ma…proviamo a regredire fino agli anni ’50 del secolo scorso. Allora, ogni prodotto alimentare, dalla gassosa in bottiglietta, alla birra, al latte,  allo yoghurt era venduta in vetro e il “vuoto” che era gravato da un deposito cauzionale, era civilmente lavato e riportato dal venditore. Non c’era l’odiosa plastica. Si pagava il contenuto e il contenente era naturalmente riciclato alla legittima fonte riavendone il deposito cauzionale. L’unica spazzatura che ricordi era costituita da scarti di preparazione di cucina e, nonostante il cosiddetto “miracolo economico italiano” erano scarti contenuti. Certo, eravamo circa 12 milioni in meno, rispetto ad oggi, ma la cultura dello spreco a tutti i costi era assente. Per stracci e metalli c’era lo stracciaio che, pronta cassa, pagava qualche lira ciò che era diventato superfluo o ingombrante. Il tutto in assoluta libertà, senza carte di credito o scontrini fiscali.  Insomma: il Comune della mia infanzia non aveva gli angoscianti problemi d’oggi, i netturbini erano personale comunale e si vedevano costantemente al lavoro. La spazzatura raccolta di porta in porta.

Oggi tutto ciò è stato cancellato. Oggi si lavora su appalto contraddicendo l’elementare “logica” che l’intermediario non può che aumentare sempre e sistematicamente la spesa. Si discute sulle tecniche di differenziazione, si impongono “servizi” anche a chi non ne necessita e soprattutto si impongono su privati e commercianti. I primi soccombono e i secondi chiudono perché cifre di “quattro zeri” solo per i rifiuti urbani rendono masochista chi si ostina a volere tenere aperto un esercizio. Gli stracciai sono “spariti” assieme a tanti onesti mestieri d’un tempo. Oggi per gli stracci non c’è nulla (dove riciclarli?) e per i capi dismessi ci sono i cassonetti gialli della Caritas. La plastica va nel bidone azzurro e vetro e metalli in quello a campana. Mi sorgeva però un dubbio: dopo avere pagato la tassa su questi N servizi del Comune, che ha, a sua volta, ha  appaltato il servizio a terzi, i  “beni” come vetro e metalli che fine fanno? Mi manca il capolinea, il deposito finale… Perché “bene” si traduce in denaro e 1000 bottiglie di passata di pomodoro vuote … be’ provate voi ad azzardare una stima: una bottiglia verde da vino costa non meno di 0.96 Eurocent (IVA esclusa, naturalmente).

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