GAMBINO: era un uomo dei Petrosino ?


Aldo Bianchini

SALERNO: “Gambino e D’Onofrio erano una cosa sola con i Petrosino-D’Auria, me lo disse in carcere Federico Chessa, braccio destro del boss Luigi Iannaco di Sant’Egidio. I D’Auria li hanno aiutati nelle elezioni e in cambio avevano avuto laute compense: la gestione della Multiservice, i rifiuti, la casa pagata poche lire di affitto … I D’Auria si stanno arricchendo alle nostre spalle, mi disse Chessa, lo stesso me lo comunicò Nicola Fiore (alias Pallino) e Mimì Ferraioli” (fonte Il Mattino e La Città); questa lunga affermazione resa in teleconferenza martedì 29 settembre nell’ambito del processo d’appello “Linea d’ombra” a carico di Alberico Gambino ed altri basterebbe da sola a porre fine ad una sceneggiata dei pentiti che da anni inquinano tutto quello che toccano. Leggendo queste dichiarazioni mi sono chiesto se è ancora possibile in un Paese civile dar credito ad un pentito come Sandro Contaldo che palesemente non comanda più nulla ed è alla disperata ricerca di tutto quello che la legge sui pentiti può ancora garantirgli in termini di benefici. Ma quale verità si può ottenere da simili personaggi che spesso cadono in contraddizione tra loro diventando ridicoli agli occhi dell’attento osservatore; nei panni di Claudio Tringali, presidente della sezione di Corte di Appello, avrei senza indugio chiuso il collegamento, avrei invitato il presunto pentito a preparare meglio le sue rivelazioni e non avrei consentito che lo stesso si ponesse in maniera furiosa contro gli avvocati difensori di alcuni imputati e soprattutto dei Petrosino-D’Auria. Non avrei consentito, insomma, che si arrivasse quasi quasi alle minacce in teleconferenza e per di più in un’aula di giustizia. La legge sul pentitismo, l’ho scritto tante volte, andrebbe rivista prima e più della legge sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali; ma di questo la politica non si accorge. Comunque siamo arrivati, credo, al canto del cigno della pubblica accusa che non dovrebbe avere altre frecce al suo arco, dopo aver esibito questo tipo di frecce spuntate e non credibili. Ma leggete questa altra boutade dell’ex camorrista Sandro Contaldo, una boutade che lo Stato gli ha consentito di recitare scimmiottando da uno schermo televisivo: “Alberico Gambino l’ho conosciuto nel 1997, quando mi ha portato cinquanta milioni di lire di tangente sulle agenzie del padre. Mi chiese il mio appoggio perché pensava di mettersi in politica, ma io lo sottovalutai e gli dissi che non avevo tempo da perdere. Lo mandai via pensando che se fosse diventato importante sarebbe sceso a patti con me”. Incredibile, Contaldo che parla quasi come uno dei Casamonica; forse anche lui in cella ha assistito ai funerali in tv del capostipite di una delle famiglie più malavitose della capitale. E lo Stato paga, direbbe qualcuno. La rivelazione di Contaldo fatta con 18 anni di ritardo mi fa ritornare alla mente uno dei capisaldi d’accusa contro un politico ai tempi di tangentopoli. Un imprenditore di Vallo della Lucania dichiarò ai pm Di Nicola e D’Alessio che aveva dato, anni prima, una tangente di 50 milioni di lire ad un importante personaggio politico salernitano. I soldi glieli aveva consegnati incrociando con la sua auto quella del politico e glieli aveva passati attraverso i finestrini davanti, proprio davanti, al Bar Canasta di Piazza della Concordia. Peccato per gli inquirenti che l’imprenditore aveva dimenticato che in quel punto la strada è a senso unico; insomma questi sono i pentiti, delinquenti o imprenditori che siano. Non mi ha sorpreso, invece, la dichiarazione di Stefano Cicalese (dirigente del Consorzio di Bacino SA/1) sulla posizione del dipendente –responsabile di un servizio- Michele Petrosino D’Auria, fratello di Antonio, attualmente detenuto anche per altre vicende di stampo camorristico; ebbene Cicalese avrebbe testualmente affermato che Michele “Ha sempre dimostrato grandi capacità. Dove andava lui aumentava la differenziata”. Michele Petrosino D’Auria si è sempre chiamato così, anche ai tempi in cui fu assunto al Consorzio, cioè anche allora era figlio e fratello di due presunti camorristi ed anche lui vantava alcuni piccoli precedenti penali. Ogni volta che ritrovo Michele Petrosino nelle cronache giudiziarie, ritenendolo al di sopra delle accuse, mi meraviglio comunque che nessuno gli chieda o chieda al Consorzio come fu assunto e chi lo assunse in quel’ente locale pubblico e a chi il Petrosino rispondeva; si scoprirebbe, così, che Michele non aveva alcun debito da pagare a Gambino e che rispondeva alle logiche di altri personaggi politici inseriti in altri contesti partitici. Ma queste cose, forse, non interessano più di tanto. Prima dell’udienza ho incontrato e dialogato a lungo con Antonio Gambino, papà di Alberico, una persona che ha poco meno di ottant’anni e che, suo malgrado, si ritrova proiettato nelle aule di un tribunale che non aveva mai frequentato. Un uomo che ha un profondo rispetto della giustizia in senso lato e dei magistrati in particolare; è entrato nell’aula tremante, non impaurito, tanto da apparire come un pulcino bagnato da un’onda anomala che non gli appartiene. Ma ha deciso di parlare anche se poteva avvalersi della facoltà di non rispondere, ha preferito sottoporsi alla gogna psicologica dell’emiciclo di un’aula giudiziaria pur di aiutare il proprio adorato figlio, dicendo la verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *