Nel 1960 la Corte Costituzionale con la storica sentenza n. 33 aprì 62 anni fa alle donne le porte degli uffici pubblici e delle istituzioni, cambiando il volto della Repubblica.

da Pietro Cusati

 

 

 

 

 

 

Sono passati  62 anni dalla  storica sentenza n. 33 del 1960  della Consulta  verso l’uguaglianza sostanziale di genere. E’ stato un passo importante verso l’uguaglianza sostanziale di genere. Diritto delle donne, dovere della Repubblica. La sentenza 33 del 1960 è l’approdo di una storia di cittadinanza attiva che ha avuto come protagonista Rosa Oliva e la sua radicata coscienza costituzionale. Ma è anche un esempio concreto del dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli” che, secondo l’articolo 3 della Costituzione, “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La Corte Costituzionale  ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’art. 51, primo comma, della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1960. GAETANO AZZARITI – GIUSEPPE CAPPI – TOMASO PERASSI – GASPARE AMBROSINI – ERNESTO BATTAGLINI – MARIO COSATTI – FRANCESCO PANTALEO GABRIELI – GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA. La questione di costituzionalità  trattata dalla Consulta con la sentenza n.33 del 1960 si riferisce all’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176,   in contrasto con il  primo comma dell’art. 51 della Costituzione, per il fatto che attribuisce al regolamento la potestà di specificare gli impieghi pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, l’ammissione ai quali è preclusa alle donne. Infatti  la norma impugnata disponeva  l’esclusione delle donne da tutti i pubblici uffici che comportano l’esercizio di diritti e potestà politiche, riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale, una riserva che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla norma e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte Costituzionale esaminò la norma tutt’intera, così, del resto, come l’ordinanza stessa l’aveva  enucleata dall’art. 7, non già soltanto su una sua parte. Una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici,fu correttamente   dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si poneva con l’art. 51 della costituzione, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. La diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Quindi una norma  del genere  violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma.  L’inciso dell’art.51 : “secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, non  significa che il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discrezionalità, dettare norme attinenti al requisito del sesso, ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in casi determinati e senza infrangere il principio fondamentale dell’eguaglianza, l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito attitudinario, come condizione, cioè, che faccia presumere, senza bisogno di ulteriori prove, l’idoneità degli appartenenti a un sesso a ricoprire questo o quell’ufficio pubblico, un’idoneità che manca agli appartenenti all’altro sesso o è in possesso di costoro in misura minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta mancanza, l’efficace e regolare svolgimento dell’attività pubblica ne debba soffrire.

 

 

 

 

 

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