scritto da Luigi Gravagnuolo il 16 Ottobre 2022
per Gente e Territorio – Cava T.
Da ormai quasi mezzo secolo l’Italia è una nazione drogata, difficile disintossicarla. Se però non ne esce, è destinata ad un declino sempre più penoso a drammatiche spese per le generazioni del futuro. Come i governi precedenti, anche il nuovo governo avrà questa difficoltà. Fuor di metafora, l’Italia da quarant’anni a questa parte vive al di sopra delle proprie possibilità. Come? Indebitandosi.
La svolta fu il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, quando rischiammo davvero la guerra civile. Il contesto era quello della guerra fredda; i gruppi armati, le Brigate Rosse su tutti, erano bene addestrati, agguerriti e tutt’altro che isolati nel paese; godevano nelle fabbriche, nel pubblico impiego e nelle scuole ed università di consensi e di complicità. Era anche in corso un processo di avvicinamento e di combutta tra criminalità organizzata e gruppi armati ‘rivoluzionari’: marciavano divisi, colpivano insieme. Lo Stato traballava, tra corpi separati che agivano per conto proprio e settori infiltrati nulla si teneva più, né la magistratura, né le forze dell’ordine, a cominciare dalla polizia penitenziaria, né le forze armate.
La strategia degli USA e della classe politica dirigente italiana puntò sulla fermezza nel contrasto repressivo al terrorismo ‘rosso’, sul taglio dei suoi legami con la criminalità, anche attraverso compiacenze verso quest’ultima, e sul prosciugamento del suo consenso nelle fabbriche. L’Italia fu per un verso inondata di dollari, per un altro autorizzata di fatto a fabbricare lire a dismisura per concedere rilevanti miglioramenti salariali e di servizi sociali. Ai giovani si aprirono le porte delle assunzioni nella pubblica amministrazione, senza concorsi o con prove farlocche. Buona parte dei leader studenteschi, di quelli più scafati, fu assorbita nei ranghi delle università e si placò.
Tutto ciò senza colpire i consolidati privilegi di classe e di casta. I redditi delle classi superiori non furono intaccati, al contrario furono accresciuti. Non ci fu una redistribuzione dei redditi, ma una pioggia indiscriminata di lire su tutto e su tutti. Nel ‘78 il rapporto debito/pil era al 59%, dieci anni dopo già era arrivato all’89%, ancora cinque anni e fu al 120%!
L’Italia va avanti da un quarantennio con tale logica incrementale. Anche sotto il profilo istituzionale, enti che si aggiungono ad enti, spese che si aggiungono a spese. Niente si sostituisce, tutto si aggiunge. Con Del Rio nel 2014 si era arrivati vicini all’abolizione delle Province, una piccola riforma eppure presto affossata e fatta abortire. La fermarono a mezza strada. Ora le Province continuano ad esistere, ma le loro amministrazioni sono di secondo livello, non vengono elette dal popolo ma dagli eletti del popolo nei Comuni.
Recentemente, per fronteggiare un problema serio di diffusa povertà e per scongiurare una rivolta populista, è stato introdotto il reddito di cittadinanza. Neanche istituito ed è subito diventato un irrevocabile diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino italiano. Vaglielo a togliere a chi ne gode. Per le imprese edili e per le famiglie proprietarie di immobili si è introdotto il bonus del 110% per le ristrutturazioni. Mica facile dire ora basta, è finita l’emergenza, torniamo all’ordinario.
Così, elargisci oggi, dispensa domani, il rapporto debito/pil è arrivato al 159%! E sarebbe stato ben superiore se l’UE non avesse accettato di farsi carico di una parte significativa del nostro fabbisogno facendo debito per conto nostro e girandoci miliardi di euro a fondo perduto. Però, prima o poi, dal debito dovremo pur rientrare, chi ci ha prestato i soldi li vorrà indietro e noi, per restituirglieli, se non avremo dei governi capaci di ridurre il debito, dovremo farne altro a tassi sempre più alti. Un gatto che si morde la coda.
Per uscirne ci sarebbe bisogno di un governo autorevole, che prometta agli Italiani lacrime e sangue, alla maniera di Churchill, e che poi non si fermi alla promessa. Ma l’Italia di oggi non è il Regno Unito del 1940. Chi si azzardasse solo ad accennare a sacrifici da farsi dagli Italiani avrebbe l’un per cento dei voti. Ormai, è tristissimo ammetterlo, la nostra democrazia è pressoché incompatibile col risanamento finanziario del paese.
È a questo cimento che sarà chiamato il Governo Meloni. Con la guerra russo-ucraina ancora in corso, la minaccia di una recrudescenza del Covid, la diffidenza dell’UE e degli stessi USA nei confronti del nostro nuovo governo l’impresa sembra ciclopica. Per parte nostra non possiamo che augurarci che la prima premier donna della storia d’Italia ce la faccia, ma già i primi segnali di nervosismi interni alla sua coalizione lasciano inquieti. Ce la farà Giorgia Meloni a togliere la ‘droga’ al nostro popolo o quanto meno a ridurne il dosaggio? E cosa faranno i suoi alleati se e quando dovesse sollevarsi nel paese un fumo prima di malcontento, poi di rivolta?
Lei, che non è certo una novizia della politica, certamente cercherà – a mio avviso – di deviare le attenzioni dell’opinione pubblica su altro, sui diritti civili da limitare o da aumentare, sulla riforma della costituzione, sulla perfida Europa e magari sulle vicende belliche in Ucraina; ma alla fine le tasche vuote o alleggerite degli Italiani non saranno più eludibili.
Passiamo alle opposizioni. Per ora sono tre: il centro liberaldemocratico di Azione-Iv, il Pd demo-progressista e il M5S populista.
Restando nella metafora del paese ‘tossicodipendente’, il M5S è il partito della droga: nessuno tocchi il reddito di cittadinanza e il bonus del 110%, anzi si faccia più debito per elargire nuova prosperità drogata al popolo, più servizi, più pensioni, più tutto. E poi, la si pianti con le sanzioni a Putin e prendiamoci il suo prezioso gas. Rischia di essere popolare, oltre che populista. I drogati sono grati ai fornitori.
Il Centro liberale è all’opposto il partito della disintossicazione forzata, certamente impopolare. Non ha la forza per promettere lacrime e sangue, ma la sua ricetta è senza alcun dubbio la più vicina all’approccio terapeutico dei governi tecnici del passato e, ultimo, di Draghi. Non potendo contare su un sostegno popolare, condurranno l’opposizione nei corridoi delle Camere, con la manovra politica.
E i demo-progressisti del Pd? Per ora non lo sanno neanche loro. In attesa del congresso di primavera si tengono uniti in nome della lotta contro il governo neofascista. Fui tra i fondatori del Pd, poi sono stato sindaco della mia città, infine sconfitto nelle urne (avevo osato contrastare la prosperità ‘drogata’ delle case abusive, costruite a basso costo su suoli non edificabili). Preso atto della sconfitta mi accinsi a fare opposizione in Consiglio Comunale, ma un alto dirigente provinciale del partito venne spiegarmi che gli elettori hanno sempre ragione, ero stato troppo ‘legalitario’ ed avevo giustamente perso. Buttai via la tessera del Pd.
Chissà se oggi nel Pd, dopo la batosta del 25 settembre scorso, sono ancora convinti che gli elettori hanno sempre ragione. Se così fosse, se gli elettori hanno avuto ragione a votare in maggioranza per la leader del solo partito che si era opposto a Draghi, forse dovrebbero immaginare una opposizione alla Meloni che non sia fatta di sua demonizzazione ideologica. Demonizzando lei, demonizzano gli Italiani che l’hanno eletta.