I DUE COLONIALISMI

 

 


 

di Michele Ingenito

 

La protesta esplode, il Brasile brucia. Brucia di rabbia e di dolore. La ‘parola d’ordine’ è sempre la stessa. Giustizia. Più giustizia sociale. No alla corruzione. Non si sottrae all’urlo la Presidente Dilma Roussef. Come potrebbe?

Non è vero, allora, che la calamita che fa impazzire i brasiliani – il pallone – prevalga sempre e comunque su quello che è il bene di prima necessità: sfamarsi.

Lo conferma la retromarcia del potere politico al governo. Gli aumenti dei prezzi dei servizi pubblici saranno revocati. La ‘droga’ della “Confederation Cup”, alternativa diabolica alle 3 F (festa, farina e forca), questa volta non ha funzionato.

I milioni di protestanti in marcia nelle principali città di quel grande Paese non hanno abboccato alla trappola mortale del potere. Non si sono lasciati strumentalizzare dall’evento mondiale.

Anzi, molto intelligentemente, hanno loro sì, una volta tanto, usato il potere. Aspettando la manifestazione per pubblicizzare la protesta. E, infatti, sui media di tutto il mondo la concentrazione sulla vicenda è ai massimi livelli di divulgazione.

Una volta tanto, quindi, il pallone è stato preso a calci e buttato fuori dallo stadio. Al suo posto il bene sociale, la prima e vera esigenza del Paese.

Che dire! Se lo stesso potere politico si schiera idealmente e concretamente con la protesta popolare, vuol dire che lo scontro reale investe direttamente i veri poteri: quelli dell’economia e della finanza internazionali in grado di ricattare il potere politico-istituzionale interno. Per una forma di colonialismo che, cambiate le spoglie, ripropone in tutta la sua forza ed arroganza le antiche regole del gioco.

In precedenza, furono le potenze europee a scatenare il triste fenomeno del colonialismo, occupando e condizionando (in parte ancora oggi) paesi africani ed altre parti del mondo. L’India, ad esempio di un ormai lontano Otto/Novecento.

Quel che accade in questi giorni in Brasile mi riporta alla mente la tragedia algerina degli anni ’50 del secolo scorso. Quando, nel 1960, quel paese nordafricano riuscì a liberarsi definitivamente del giogo francese, dopo anni di lotte, martiri, attentati, violenze e vendette, da una parte e dall’altra.

Ora, tra alcuni grandi Paesi almeno, come il Brasile per l’appunto, che ha formalmente assunto l’abito di una democrazia consolidata, lo sfruttamento popolare è molto più sottile, perché pilotato da forze invisibili sul piano politico-istituzionale, soprattutto esterno, ma certamente presente e dominante nella scacchiera che davvero conta: quella del denaro, della ricchezza, della grande finanza internazionale. Mentre, ed è tutto qui il paradosso, milioni di brasiliani fa la fame.

Come nelle tristi notti della grande battaglia di Algeri del ’57, anche oggi è il popolo ad insorgere. Prendendo a calci il pallone, per un diverso e più reale benessere.

L’occhio del mondo concentrato sull’evento grazie al calcio non può non guardare con interesse e, in pari tempo, con sdegno ad un dramma della vita che passa sempre, purtroppo, attraverso quello della morte. Finora sono stati in due manifestanti a pagare. Quando andremo in pagina speriamo che il numero non sia cresciuto.

L’Italia di Prandelli avrà già fatto la sua partita. Il Brasile pure.

Ma la più importante continuano a giocarla i disperati dell’esistenza per un quotidiano non sempre garantito. Mentre le distanze tra ricchi e poveri continuano a crescere in un paese a noi vicino, da noi lontano.

 

 

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