GAMBINO/119: la resa dei conti !!

Aldo Bianchini

SALERNO – Credo che il processo di appello “Linea d’ombra” stia arrivando alla resa dei conti, ma più che il processo in se, credo che in gioco non sia tanto e solo l’esito processuale (che pure ha il suo indiscutibile peso) ma una linea di pensiero che ha portato spesso, e non solo per questo caso, le Procure di Salerno e Nocera a scontrarsi con la parte giudicante della magistratura nocerina. Per carità, sarà anche una mia suggestiva supposizione ma se andiamo a snocciolare le varie inchieste partite sia dalle idee del pm antimafia Vincenzo Montemurro che da quelle del pm Roberto Lenza si può anche pensare che la mia supposizione non sia, poi, soltanto una supposizione. Lo scontro più duro è senza dubbio tra il pm Montemurro e i giudicanti di Nocera Inferiore che, senza nulla togliere alla professionalità di entrambi, in più occasioni hanno cercato di smantellare i castelli accusatori del noto pubblico ministero salernitano. Per fare un esempio pratico basta ricordare l’inchiesta denominata “Baldi connection” attivata sempre da Montemurro contro l’ex consigliere regionale Giovanni Baldi di Cava ed alcuni medici, ritenuti tutti rei di aver fatto uso del voto di scambio attraverso fasulle visite mediche della commissione invalidi civili; scattarono arresti clamorosi e le manette strinsero anche i polsi dell’ex consigliere regionale; ma anche in questo caso è arrivata a più riprese la mannaia del gip Paolo Valiante che ha in gran parte, e in più occasioni,  smantellato l’impianto accusatorio portato avanti sia da Salerno (Montemurro) che da Nocera (Lenza). In questa battaglia di nervi, che si è riproposta in tutta la sua durezza anche nel corso della requisitoria di martedì 12 aprile scorso per il processo d’appello “Linea d’ombra”, non sono mancati gli stracci svolazzanti all’interno della grande famiglia della giustizia con sibilanti accuse da parte di Montemurro verso il collegio giudicante di primo grado in cui spiccavano i nomi della presidente Anna Allegro e del giudice a latere Paolo Valiante. Accuse durissime ma anche molto insolite, a dimostrazione della radicalizzazione dello scontro su un impianto accusatorio che è basato molto sulle convinzioni personali e poco sulle prove e sui riscontri oggettivi. Ma tutto è avvenuto, bisogna dare atto a Montemurro, in un’aula dibattimentale e non sui media come spesso accade; in questo il pm salernitano va apprezzato in quanto non si è mai concesso più del normale ai mezzi d’informazione che sono stati costretti ad adeguarsi e ad inseguire le mosse processuali strategiche, mosse che non poche volte hanno colto di sorpresa anche l’attrezzato collegio difensivo di Alberico Gambino (con Giovanni Annunziata e Alessandro Diddi) senza dimenticare l’altro imputato eccellente Giuseppe Santilli (consulente del lavoro) ritenuto una specie di “ideologo del sistema Pagani e del sistema Gambino”. L’aula dibattimentale, è bene ricordarlo, è un sacrario coperto da assoluta immunità in cui è possibile avanzare qualsiasi ipotesi senza correre rischi di sorta; ed è proprio in questo sacrario che ora si attendono con ansia e curiosità le arringhe difensive che sicuramente scuoteranno l’aula di appello fin nelle sue fondamenta. Per questi motivi siamo alla resa dei conti, perché se la linea della pubblica accusa non passa sarà smantellata una linea di pensiero che porterà con se anche altri importanti processi.  E’ legittimo affermare in aula che i giudici del primo grado si sono fermati su “una valutazione sintetica del materiale probatorio raccolto relativamente all’ipotesi di concussione aggravata ascritta a carico di tutti gli imputati … limitando le sue decisioni alle sole dichiarazioni del Panico”, ma è altrettanto legittimo pensare e credere che i giudici di primo grado (ripeto fortemente rispettabili per la loro storia giudiziaria) hanno sicuramente valutato le dichiarazioni dei tanti pentiti alla stregua di fantasiose ricostruzioni processuali. Il pm Montemurro deve convincersi che oggi i pentiti sono simili ai calciatori e i ciclisti; un tempo erano tutti quasi analfabeti e sapevano solo salutare la mamma con un gesto della mano (soprattutto nel ciclismo di Fausto Coppi), ma quella era l’epoca dell’uomo solo al comando; oggi ci sono anche calciatori e ciclisti laureati e preparati a guardare molto di più alla loro carriera ed ai loro guadagni. Oggi i pentiti leggono, studiano, guardano la tv e cercano di utilizzare tutte le informazioni raccolte nella preparazione di linee difensive ineccepibile soprattutto nell’ottica di difendersi attaccando i personaggi politici molto facilmente permeabili, nell’immaginario collettivo, anche dalle accuse più inverosimili. Da qui le ragioni che hanno indotto i giudici nocerini ad omettere alcune testimonianze che secondo l’accusa potevano fare da cerniera tra il Comune di Pagani, la famiglia Panico e la criminalità organizzata; questa cerniera è frutto di una “linea di pensiero” (anche giustificabile nella sua accezione linguistico-giudiziaria) che va alla disperata ricerca di punti di aggregazione che trovano sedimentazione nelle dichiarazioni dei pentiti. Non so se questa mia linea (anch’essa di pensiero) sia valida o meno, so per certo che se l’ho pensata io potrebbero benissimo averla pensata i vari pentiti chiamati come testi sia nel primo grado che in appello. Oltretutto quelli dell’appello sono ancora di più non credibili in quanto hanno avuto molto più tempo per studiare i fatti e maturare il loro disegno difensivo teso sempre e comunque all’ottenimento di tutti i benefici di legge e non certamente per il desiderio di giustizia, fatto questo che criminali incalliti (almeno per la legge !!) come i pentiti non sanno neppure dove stia di casa. Inoltre mi sembra abbastanza insufficiente la teoria del pm in merito al fatto “dell’assunzione della moglie di D’Auria in strutture comunali” perché se dovesse essere vera questa circostanza è altrettanto vera quella dell’assunzione di Michele Petrosino D’Auria nella struttura consortile del “Bacino Salerno – 1”, anche se in quest’ultimo caso la pubblica accusa non ha mai chiamato a giudizio i vertici del consorzio targato Raffaele Fiorillo, sebbene il Petrosino avesse avuto addirittura incarichi dirigenziali e organizzativi. Ma queste sono riflessioni del tipo squisitamente difensivo che non spettano certo ad un giornalista che deve, invece, dopo aver fatto la cronaca provvedere anche al dovuto approfondimento che casi come questo meritano. Non devono meravigliare, infine, le richieste di condanna del pm Montemurro (9 anni per Gambino e i Petrosino, 6 anni e 6 mesi per Santilli, ecc.) che ricalcano più o meno quelle condanne richieste già in primo grado; qui è in discussione un fatto molto più importante che riguarda l’intero collegio giudicante, presieduto dall’espertissimo Claudio Tringali, chiamato a districarsi con grande abilità nel mare magnum del pentitismo, un fenomeno che se è vero che ha dato in passato i suoi frutti, ora viene sfruttato dai singoli pentiti soltanto per fini speculativi e personali. Al momento, prima delle arringhe difensive e delle decisioni finali, bisogna prendere atto che l’accorata autodifesa di Gambino nel corso dell’udienza del 1° marzo scorso non ha fatto breccia nell’immaginario di Montemurro, ma quest’ultimo ha provato a difendere ovviamente la sua schematizzazione processuale. Dunque due punti di vista completamente diversi in cui si infilano astutamente i pentiti. E questo i giudici dell’appello lo sanno benissimo.

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