Il fuso di Ananke

di Angelo Giubileo (scrittore)
SALERNO – Il periodico La Lettura nell’edizione del 6 agosto u.s. informa che Kevin Mulligan, filosofo inglese nato nel 1951, da settembre dirigerà all’Università della Svizzera italiana un nuovo master in Philosophy, che avrà come tema conduttore il tempo. Presentando il master, il filosofo ha scritto un articolo sul numero della rivista, introducendolo così: La metafisica e la filosofia della fisica contemporanee sono il palcoscenico di una serie di dibattiti affascinanti sulla natura del tempo e dello spaziotempo. Il titolo dell’articolo, che prova a farne la sintesi, è: Il tempo si fa in quattro. Ma forse è solo un’illusione.
Metafisica e filosofia della fisica, presenti passate e future, non insegnerebbero comunque nulla ai progenitori delle più remote età di cui dice Aristotele nel libro Λ della Metafisica (1074 b) dove – riporta Giorgio de Santillana – parla di Kronos, Zeus, Afrodite, ecc.:
I nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito, secondo cui questi corpi sono dei e il divino racchiude l’intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dei – lo si dovrebbe ritenere un’enunciazione ispirata e riflettere che, mentre probabilmente ciascun’arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie dell’antico tesoro.
Qui, si tratta innanzitutto di una tradizione; ovvero un detto che si tramanda dalle età più remote e relativo al factum che “questi dei” hanno forma umana (così che, a esempio, l’evento del Cristo non rappresenta un fatto nuovo) o son simili ad alcuni degli altri animali (sacri alle religioni; la qual cosa equivale a dire che sia gli uomini che alcuni altri animali sono essi stessi immagini di questi dei). Inoltre, si tratta di una tradizione riportata in forma di mito, e cioè un tipo di linguaggio comunicativo, piuttosto “misterico” (secondo la tradizione che, a esempio, risale ai riti iniziatici di Eleusi e all’orfismo) che enigmatico, ritenuto presumibilmente più confacente allo scopo stesso della tradizione. Infine, una tradizione che Aristotele giudica risalente a un’“enunciazione ispirata” e che, a differenza di ciascun’arte e ciascuna scienza, non è destinata a essere più volte sviluppata fin dove possibile per poi perire di nuovo.
E tuttavia, a seguito dello stesso Aristotele, e come abbiamo visto nell’incipit di questo articolo ancora oggi, si sostiene un diverso e nuovo accrescimento della tradizione, secondo il principio che verum (et certum) ipsum factum est.
Ma: la struttura arcaica del cosmo non è mai mutata!
Il linguaggio del mito aveva servito bene lo scopo della tradizione, fintantoché i filosofi (rectius: i fisici), i nuovi artisti o scienziati dell’epoca di allora, avevano inteso sviluppare l’arte e/o la scienza del discorso, viceversa cosiddetto razionale: dal mythos al logos.
Ma, che cosa hanno in comune l’arte e la scienza? Entrambe condividono lo stesso fondamento: il numero. E ogni numero non serve altro che alla misurazione. Anche se di misurazione, gli antichi progenitori di Aristotele avevano diffusamente parlato mediante il linguaggio dell’astrologia. Così che, de Santillana asserisce che il maggiore divario tra il pensiero arcaico e quello moderno sta nell’uso dell’astrologia. Appunto.
Per facilitarci il compito di comprendere questa differenza sostanziale, Plutarco scrive, a proposito della fine degli oracoli, che:

… come dice Sofocle, anche le opere divine periscono, ma non gli dèi. « L’essenza e il potere di questi fenomeni vanno ricercati nella natura e nella materia, dicono i sapienti, salvaguardando però, come è giusto, la loro origine divina. È assurdo e puerile credere che il dio stesso, come i ventriloqui soprannominati un tempo Euricli e oggi Pitoni, entri nel corpo dei profeti e parli servendosi della loro bocca e della loro voce come strumenti. Chi mescola dio alle funzioni umane non rispetta la sua maestà, e offende la dignità e il prestigio della sua, superiore statura ». « Hai ragione » disse Cleombroto. « Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in qual modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell’opinione di alcuni il dio non c’entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà. Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri.

E cioè, il discorso viene così “costruito” (arte) avvalendosi delle regole (divenute certe) della logica – basate sui principi d’identità e di non contraddizione, tra ciò che in base alle stesse regole è giudicato vero e falso, e del terzo escluso -, e pertanto si dice che una cosa è vera o falsa secondo il giudizio affidato (ad fidem) in via esclusiva all’autorità che, in quanto tale, diviene certa (legge, individuo, stato). Secondo un procedimento “storico” che de Santillana così descrive:
“l’umanità” è il prodotto di un lunghissimo processo di trasmissione e accrescimento, di perdita e di ri-nascimento delle conoscenze scientifiche.

Le arti – al cui vertice è sviluppato il discorso di quella che sarà ogni religione, così come la intendiamo oggi, e cioè il discorso della metafisica di cui è detto nell’incipit – e le scienze – al cui vertice è sviluppato il discorso della fisica di cui è anche detto nell’incipit – fanno parte del patrimonio intero del sapere (e non solo della tradizione accertata), che l’umanità accresce e trasmette, perde e ritrova. Separatamente, trattasi di arti e scienze, relativamente al giudizio (interpretativo) che procede in base a due diversi ordini – che sono rispettivamente quello del “tempo” (inizio, durata e fine della creazione) e quello dello “spazio” (uni-pluri-verso) – geo-metrici ovvero di misurazione delle “cose” terrestri.

Che cosa sia il tempo e che cosa sia lo spazio è un’avventura e una ricerca in-terminabile, che avviene cioè nel termine dello spazio e del tempo (spaziotempo) rappresentabile, e cioè misurabile attraverso i numeri (o le parole, come appieno dimostrato oggi dalla logica algoritmica d’internet). Tenuto conto del fatto che non per tutte le antiche mitologie, che narrano dell’inizio dei tempi (plurale), il kaos o lo spazio-vuoto o l’abisso di Esiodo rappresenta il fondamento e quindi l’inizio della rappresentazione “cosmica” (dal caos al cosmo). Per molti, all’inizio è il tempo (singolare).

Come risolvere questo enigma (qui, infatti, non è il caso di parlare di mistero) legato alla rappresentazione del tempo? Potremmo dire che esista un tempo relativo, ma sbaglieremmo perché, coerentemente, occorre servirsi del linguaggio degli antichi progenitori di Aristotele e scoprire (ricordando a tale proposito che, anche secondo il giudizio di Aristotele, il discorso della filosofia nasce dalla meraviglia) che questa differenza ruota intorno alla figura di Saturno e tutte le altre consimili appartenenti al discorso dell’origine (nel tempo) o origini (nello spazio e nel tempo) di ogni diversa rappresentazione mitologica.

Per sempre, e cioè in eterno, Saturno è colui che dà le misure. Egli è sia l’auctor temporum sia abitatore della terra. In ambito di discorso, Egli piuttosto rappresenta sia il “Tempo infinito”, l’“Eterno”, la “Necessità” sia – secondo il detto di Platone – “l’immagine mobile dell’eternità” e quindi il movimento (divenire) degli “enti”, “cose” o “corpi” (essere) nello spaziotempo misurabile. E pertanto, attraverso il linguaggio, di qualunque forma sia:

Si renderanno superflue, per citare un solo caso, le discussioni sulle “versioni” (al plurale) del “mito della creazione del mondo” (al singolare), per esempio nel Rg-Veda, come pure la questione di a chi vada attribuita l’una o l’altra versione (agli abitanti originari o ai conquistatori), non appena si sostituirà – ancora una volta di diritto – il termine “mondo” con “età del mondo” (anche la Bibbia parla di “un nuovo cielo e una nuova terra” – Is, 65,17; 66, 22; Sal, 102, 26-27; 2Pt, 3, 13; Ap, 21, 1), e il termine “creazione” con il termine “misurazione”: cioè misurazione di un nuovo skambha, espressa attraverso forme abbreviate tipo “appendere il cielo” (alla Stella Polare), “fondare la terra” oppure “stabilire i quattro angoli” e “misurare la profondità del mare”.

Che cos’è questo skambha? Esso è rappresentativamente l’asse del mondo, ma – precisa de Santillana – il termine asse del mondo è un’espressione riduttiva, paragonabile alla riduzione visiva che risulta dalla proiezione delle distese del cielo su una carta stellare piana. E’ meglio non pensare all’asse in termini puramente analitici, una linea alla volta, e considerarlo invece un tutt’uno con la struttura avvolgente alla quale è collegato. Ciò comporta l’uso di termini polivalenti e la consapevolezza di una involuzione convergente di significati insoliti. Come il raggio fa automaticamente pensare al cerchio, così l’asse deve evocare i due cerchi massimi determinanti sulla superficie della sfera, i coluri equinoziale e solstiziale.

Una volta che l’asse sia ed è in moto, ogni e-ventum (factum) accade in sé e per sé, e quindi è; a differenza di ogni rappresentazione che viceversa diviene nell’ordine sia dello spazio che del tempo inteso come movimento). Al di là, oltre ogni misurazione, e quindi ogni rappresentazione, esiste l’“intuizione” dell’“eterno”, che non muta, o altrimenti a dirsi, secondo Plutarco, l’elemento sottostante alle qualità in divenire.

In de Santillana, e in specie nel suo Mulino di Amleto, questo elemento ruota intorno al fuso di Ananke per mezzo del quale ruotano tutti i cerchi. Nel tentativo di operare un’estrema sintesi:

La grande entità orfica era Chronos Aion (l’avestico Zurvan akarama), comunemente inteso come “Tempo infinito”; in Aion il professor Onians ravvisa “il fluido vitale della procreazione con cui si identificava la Psiche, il midollo spinale che si credeva assumesse forma di serpente”: e può benissimo essere così, dal momento che si tratta di idee antichissime vive ancora oggi nei culti ofidici e nella kuṇḍalinī dello Yoga indiano. Ma è indubbio che Aion significasse “periodo di tempo” ed età, donde “età del mondo” e più tardi “eternità”, né si ha motivo di ritenere che il significato biologico debba esser stato antecedente e dominante. E’ noto che per gli orfici Chronos era il paredro di Ananke, la Necessità, la quale, secondo i pitagorici, circonda anch’essa l’universo. Tempo e Necessità che cingono l’universo: ecco una concezione piuttosto chiara e fondamentale: è collegata ai moti celesti indipendentemente dalla biologia e porta direttamente all’idea platonica del tempo come “immagine mobile dell’eternità”.
Per mezzo del linguaggio moderno, potremmo anche concludere asserendo che ogni fatto (factum) accade, e quindi è destinato ad accadere secondo necessità (est). E dunque, un mistero che accade, e si rinnova secondo le regole dell’eterno (factum est), e in definitiva è la Misura di sé medesimo; diversamente dalla rappresentazione nello spazio-tempo di termini o numeri di un qualsivoglia inizio e di una qualsivoglia fine, di cui occorre viceversa servirsi al solo scopo di esercitarsi nell’arte e nella scienza della misurazione.

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