IL MITO DELL’IMPERO

Di Angelo Giubileo (scrittore)

ROMA – La tecnica è ciò che consente di rendere quasi automatico il funzionamento della ragione strumentale (…) la strutturazione di un calcolo che si traduce in una macchina automatica capace di sostituire l’uomo (P. Barcellona)

L’essenza del mito

La storia dell’umanità attraversa millenni e presuppone dall’origine, necessariamente, due elementi: un linguaggio comunicativo e pertanto una forma iniziale sia pur minima di socialità. Semplificando maggiormente, una forma minima di “con-divisione”. La qual cosa, in ambito filosofico, rinvia alla prima parte del detto (originario) di Anassimandro: Ma da ciò da cui per le cose è il nascere, nasce anche l’uscire verso di esso, secondo il necessario. E quindi, nel caso di specie, l’origine del necessario è rappresentata appunto da una forma di socialità che serva a oltrepassare la separazione e la divisione e quindi introduca alla con-divisione di uno spazio, che non appare ancora de-limitato. Uno spazio, che i Greci antichi chiamarono Caos e dal quale, come descritto nella Teogonia di Esiodo (v. 116), ogni cosa pro-viene.

La scienza più recente ha dimostrato che questo spazio originario di condivisione è dapprima intenzionale: L’intenzionalità è l’abilità di una mente cosciente di rappresentare a se stessa oggetti fisici, persone e stati di cose (reali o immaginari che siano)[1]. Questa scoperta risale alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e riguarda, in particolare, l’esistenza e il funzionamento nei macachi, e poi nell’uomo, dei cosiddetti neuroni specchio, mediante i quali rappresentiamo all’interno del nostro cervello quanto osservato senza, nel con-tempo, compiere alcun atto visibile all’esterno.

E dunque, come possiamo immaginare questo spazio originario di condivisione? Scrive ancora Jim Baggott, noto divulgatore scientifico, che é allettante immaginare che debba avere a che fare con la caccia. Dopo tutto, per questi primi esseri umani moderni, il successo della caccia farà sicuramente la differenza in termini di capacità di sopravvivenza (…)[2]. Ma immaginare, più o meno realisticamente, tutto questo significa rappresentare, ovvero in pratica “costruire” non una leggenda né una storia quanto piuttosto un “mito” (dal greco μύθος, mythos, pronuncia müthos).

Si legge su wikipedia che il mito è una narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente in un certo contesto socio culturale o in un popolo specifico.

Ma, in realtà, il mito è molto di più. E’ il linguaggio delle origini, che più ci approssima al pensiero che Martin Heidegger definisce “iniziale”, essenziale per capire la natura, il ruolo e la funzione dell’essere-uomo. Forse siete sorpresi dalla caratterizzazione del linguaggio del mito che vi proporrò e quindi sarà bene darvene conto. Ma, prima di fare questo, occorre stabilire che ogni narrazione è una forma di rappresentazione e quindi di “costruzione” di un e-vento; dal latino e-ventus, che significa letteralmente “venuto fuori”, e dal quale, in fine: accadimento o, semplicemente, fatto, il fatto non in sé e per sé ma come narrato.

E dunque, resta che qui lo scopo è quello d’illustrare, meglio a dirsi introdurre alla costruzione umana di un mito, plurimillenario, che è quello dell’Impero. E allora, l’idea comune è ancora probabilmente quella che distingue il “vero” dal “falso” e corrispondentemente, in ambito specifico, la storia dal mito. Ma, “vero” e “falso” sono termini contrapposti il cui “ambito essenziale” appartiene al linguaggio “romano”. Nel caso qui di specie, il termine a cui risalire per la nostra analisi è quindi imperium.

E tuttavia, l’“ambito” romano è pre-ceduto da quello greco del “mito”. Heidegger spiega bene che ciò che si manifesta – in ambito romano e a seguito del pensiero di Platone e dei postsocratici – è un processo di adaequatio non più alla cosa ma dell’intelletto adversum la cosa. Significa, cioè, che all’uomo romano non interessa e quindi vuole più – attenzione al verbo! e a differenza dell’uomo greco – svelare il significato, che non può non essere a(p)prossimativo della cosa, egli intende piuttosto con la ragione (ratio) sua propria attribuire un significato, che solo nominalisticamente diventa di verità, alla cosa; in definitiva, è l’espressione di un giudizio che deriva dall’intelletto e non viceversa dall’esperienza della cosa medesima. Cosicché: veritas est adaequatio intellectus ad rem. Ovvero, per maggiore chiarezza, come dire che il “vero” e il “falso” si fanno strada mediante l’imperium, il comando, il giudizio che da approssimativo e quindi incerto diventa definitivo: verum è ciò che resta in piedi, l’eretto, ciò che è diretto verso l’alto, poiché è ciò che dall’alto dirige e regge: verum è rectum (regere, “il regime”), das Rechte, il retto, il giusto, iustum[3]. Ed è questo, che diviene manifesto nell’età romana, il tempo dell’Impero.

Nel qual caso, la storia è piuttosto il racconto – come si suole anche dire – dei vincitori. Mentre a noi interessa, almeno qui, piuttosto quello che sarebbe stato il fatto o i fatti realmente accaduti, e allora vi dico che ciò che a noi interessa è piuttosto il mito della costruzione dell’Impero.

La differenza plutarchea

In un passo di un celebre brano intitolato La fine degli oracoli, l’illustre Plutarco dice: L’essenza e il potere di questi fenomeni (riferiti a ogni altra trasformazione delle cose che non sia il nascere e il morire) vanno ricercati nella natura e nella materia, dicono i sapienti, salvaguardando però, come è giusto, la loro origine divina.

In premessa di discorso, quel che qui occorre immediatamente chiarire è il significato appropriato del termine “divino” secondo la classicità greca e quindi l’origine diversa del concetto rapportato all’uso, che pur dal greco deriva, della classicità romana. Il divino è il mistero, l’inconoscibile, ciò che nel suo ultimo saggio, riferito al tempo dell’attualità, Roberto Calasso chiama l’“innominabile”. Qualcosa che ha diversamente a che fare sia con il processo greco di entificazione delle cose che con il successivo processo romano di personificazione del dio.

Ciò necessariamente premesso, occorre ora chiedersi perché Plutarco. Quali cose, così importanti, egli ha ancora da dirci nell’attualità? La sua fama, quasi costante nel corso dei secoli che gli hanno fatto seguito – egli è vissuto tra il 46/48 e il 125/127 d.C. – è forse paragonabile solo a quella di altri classici quali Orazio e Virgilio. Più noto per il racconto delle sue Vite parallele, in una più recente nota di commento all’intera opera, è stato scritto: Confrontando sistematicamente un Greco e un Romano, il saggio cittadino di Cheronea e sacerdote di Delfi, -amico di illustri politici e filosofi romani – intendeva, con grande sensibilità, contribuire alla comprensione reciproca tra i due popoli, le due culture, descritte nei loro aspetti comuni e nelle loro diversità[4].

Ma, ritorniamo ora brevemente al brano dell’Autore appena citato, laddove Plutarco prosegue: (…) Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in quale modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell’opinione di alcuni il dio non c’entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alla qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura (breve inciso: ai tempi di Plutarco e anche oggi, ma sarebbe interessante esaminare che, ad ammissione anche dello stesso Aristotele nei libri della Metafisica, non fu e non era stato così fino al tempo dei presocratici!) – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà.

La qual cosa equivale a dire che, nelle faccende in questione, abbia complicato molto più gravemente la vita agli storici tanto da rendere il loro lavoro, in definitiva, impossibile! Ma c’è anche un altro elemento, sempre a giudizio di Plutarco, che assume, sempre qui, un rilievo maggiore. Infatti, proseguendo nel discorso, egli aggiunge: Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dei e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri.

E’ così dunque che il mito dell’Impero prende forma dal bisogno, esigenza, in ogni caso la necessità di con-dividere lo spazio, prima originario, che adesso viceversa viene ed é delimitato.

A differenza di Cesare, che fu proclamato per diritto dal Senato e dal popolo romano, ma solo dopo la sua morte, per la prima volta nella storia dell’impero romano, divus; Alessandro – dice Plutarco –, anche da quel che si è detto, non era né smodatamente preso né orgoglioso della sua divinità, ma valendosi di questa credenza teneva soggetti gli altri[5]. Da Cesare in poi, fino all’attualità, le due diverse modalità di organizzazione del potere, in genere – così come ben descritte da Plutarco nel suo La fine degli oracoli – si alterneranno vicendevolmente. Come cercheremo ancora di capire.

Oriente e Occidente

Scrive ancora Calasso che L’India vedica non ebbe una Semiramide né una Nefertiti. E neppure un Hammurabi o un Ramses II (…) Fu la civiltà dove l’invisibile prevaleva sul visibile (…) Non c’erano templi, né santuari, né mura. C’erano re, ma senza regni dai confini tracciati e sicuri[6].

E tuttavia, l’esperienza e la sapienza vedica è, con la lingua del sanscrito, all’origine – prudentemente aggiungo: forse – di ogni linguaggio sociale (di tipo verbale) e in particolare di un modo (dell’uomo) di vivere, che trova ampio riscontro ancora nell’attualità e che già gli antichi Egizi nominavano per l’appunto “orientale”. E pertanto, in confronto ai sentieri tracciati in Occidente, più difficile risulta trovare le orme di quei sapienti, che da questi in poi riteniamo siano state allo stesso modo, ovunque, percorse.

L’argomento, qui in questione, è divenuto per noi quello del “potere”. Ma, in generale, il discorso che abbiamo appena introdotto rinvia alla distinzione kantiana, che apre e contraddistingue la cosiddetta epoca moderna della storia, tra noumeno e fenomeno: “Nel criticismo non vale più che l’oggetto della conoscenza siano le idee: oggetto della conoscenza è il materiale di sensazione, opportunamente “lavorato” dalla sensibilità. Ciò nonostante, e proprio in virtù della “rivoluzione copernicana”, il problema di Kant rimane analogo a quello di Cartesio. Se noi conoscia­mo gli oggetti secondo i modi della nostra conoscenza, questo significa che, in senso proprio, noi non conosciamo gli oggetti come essi sono in realtà, ma come ci appaiono, come essi risultano dall’incontro con le nostre strutture conoscitive. La realtà in sé rimane consegnata all’inconoscibi­lità. Tale realtà in sé è definita da Kant noumeno (“pensabile”, participio medio del verbo greco noéo, pensare): essa è ciò che in senso proprio non si può conoscere ma che tuttavia è necessario pensare come concetto‑limite (Grenzbegriff) del nostro conoscere (da Wikipedia).

In termini di discorso sul “potere”, la differenza è rappresentata così validamente ed efficacemente dallo storico Luciano Canfora in apertura del suo saggio dal titolo La natura del potere. Profittando del materialismo di Lucrezio, così come sancito in via di principio nel III e nel IV libro del De rerum natura – e quindi, per inciso: i castighi infernali sono leggende, non esistono. Sono semmai dei simboli -, l’esperto studioso attesta che la raffigurazione simbolica di qualcosa (concerne sempre) qualcosa che è qui sulla terra e, riprendendo Lucrezio, conclude: Sollecitare il potere (petere imperium) – che è cosa vuota (inane est) e che non è prendibile (nec datur umquam) – e in tale ricerca sopportare incessantemente fatiche tremende, questo, sì, significa spingere a forza lungo il pendio di un monte un masso che, appena sulla vetta, ricade rotolando in basso[7].

In pratica, si tratta del mito di Sisifo e della storia che, sul versante dell’Occidente, attraversa i millenni, almeno a decorrere dall’epoca di Alessandro e poi del divo Cesare. E da Cesare, in poi, fino all’era della modernità e poi, come ancora vedremo, dell’attuale postmodernità cercata e voluta dopo la fine dell’epoca delle due Grandi Guerre mondiali.

«Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (greco: Ἀπόδοτε οὖν τὰ Καίσαρος Καίσαρι καὶ τὰ τοῦ Θεοῦ τῷ Θεῷ; latino: Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo). La frase è così riportata nei Vangeli “sinottici”, ma nel Vangelo “apocrifo” di Tommaso la frase presenta un’aggiunta: Date all’imperatore quello che appartiene all’imperatore, date a Dio quello che appartiene a Dio e date a me ciò che è mio. Comunemente, la frase dei sinottici è intesa nel senso che gli ebrei, anche quelli convertiti al cristianesimo, debbano ritenere giusto pagare le tasse all’imperatore. E quindi – pur posto che la frase non attenga alla natura piuttosto umana che divina di Cesare o del Cesare di turno; cosa che, incidentalmente, viceversa ritengo -, comunque non resta che la questione del “potere temporale”, per antonomasia, d’imporre le tasse. E questo potere, è evidente, come dicono i Vangeli, spetti all’Imperatore; anche a scapito di Dio o del Dio di turno e, quindi, dei suoi sacerdoti (Guardiani platonici o rappresentanti autorevoli). Ciò comunque significa che anche alla “nuova” religione spetti comunque la funzione – già assegnatale anche dal discepolo di Socrate e tiranno di Atene, Crizia il Giovane (460-403 a.C.) –  d’instrumentum regni.

E’ così sarà per Costantino I, detto come Alessandro, il Grande, e immediatamente dopo per Teodosio mediante l’Editto di Tessalonica del 390, con il quale il cristianesimo essenzialmente diviene “religione di Stato”. E’ l’estremo tentativo di tenere unito l’Impero di Roma, sotto assedio dei barbari a Ovest e quasi immediatamente crollato nel 476; mentre, a Est, in carica per circa un millennio e fino al 16 luglio 1054, data che, in ambito cristiano, segna la prima separazione ufficiale: a Ovest, i cattolici, a Est gli ortodossi. Pur se, questo stesso atto ufficiale non basta a dare conto di tale divisione, già in atto tra gli imperi di Roma e Costantinopoli, che – prima dell’inizio delle Crociate – dura da circa otto secoli e si è concretizzata per mezzo di otto scismi. Con la caduta di Costantinopoli, nel 1453, preda dei turchi-musulmani, la storia dell’impero o meglio la costruzione del mito dell’impero arriva per noi fino all’attualità del presente.

La costruzione dello spazio imperiale

Ma, com’è avvenuta, in epoca a noi più recente, la costruzione del mito dell’impero?

Alla fine del secolo scorso, lo storico inglese Eric Hobsbawm dà alle stampe un saggio, che diventerà presto un bestseller, in italiano dal titolo Il Secolo breve e così sottotitolato: 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi. L’opera segue un’altra dello stesso autore dal titolo in italiano L’Età degli Imperi, 1875-1914.

Cos’è stato il Novecento? A giudizio lapidario dello storico liberale: “Il Secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità”. E quindi, ne deriva che gli strumenti – o tecniche, sottolineando per l’appunto che la politica, nel linguaggio originario platonico/aristotelico non è altro che un’arte praticabile – “sostanzialmente” non cambiano.

A commento del giudizio appena riportato, tralascio ogni considerazione sul contenuto valoriale delle scelte politiche, che andrebbero piuttosto analizzate nell’ambito del relativo contesto di applicazione. A tale proposito, basterebbe porsi qualche interrogativo sull’eventualità, da molti condivisa, che negli Stati Uniti non ci sia mai stato il socialismo. Nel contesto di riferimento, una siffatta considerazione appare più o meno un dettaglio. Diversamente, invece, c’interessa la questione determinante dei nazionalismi.

Ciò che sostanzialmente accade nella prima metà del Novecento, è la definitiva rottura della pax internazionale, sancita tra stati sovrani nel 1648 con il Trattato di Vestfalia; che, ricordo brevemente, pose fine alla cosiddetta Guerra dei trent’anni (attraverso le sue diverse fasi storiche: boemo-palatina; danese; svedese; francese; e, secondo alcuni storici, anche italiana), iniziata nel 1618, e alla Guerra degli ottant’anni, tra la Spagna e le Province Unite (dei Paesi Bassi). L’accordo fu poi completato con il Trattato dei Pirenei , nel 1659, che mise fine alle ostilità tra Spagna e Francia. Rotta la pace, accade così che uno o più Stati ripropongono e ridiscutono sullo scacchiere la questione originaria dello spazio non tanto che occupano ma che intendono piuttosto occupare. In estrema sintesi, riemerge, dalle antiche ceneri egizie dell’araba fenice, il mito della volontà di potenza, così come già dis-velato dall’oracolo (di) Friedrich Nietzsche, morto a Weimar il 25 agosto del 1900.

La questione originaria del potere?

Non cambia, ma con una precisazione: almeno per quanto concerne lo spazio geo-politico in questione. E qual è questo spazio? E a quali dinamiche soggiace? (Dato che, come accade per tutti i fenomeni in natura, l’applicazione di una forza a un corpo qualsiasi determina un mutamento; che, nel linguaggio della filosofia, rappresenta il divenire). In breve, nel Novecento, lo spazio in questione è diventato globale. E investe pur sempre lo stato dell’essere. In definitiva, è sempre una questione di statica e dinamica dell’essere, un “modo” – per l’umanità -, avrebbe detto Martin Heidegger, di “abitare lo spazio” in cui matura l’esperienza.

Siamo giunti, così, al nodo decisivo che ha caratterizzato il Secolo scorso, e le cui istanze in qualche modo occorre ancora discutere nell’attualità, ma con una prospettiva diversa e di cui diremo dopo.

Per ora, diremo che la prospettiva del Secolo scorso è validamente ed efficacemente racchiusa nel messaggio di un giurista e filosofo politico, anch’egli tedesco – e le cui tesi ebbero molto successo durante e in parte anche dopo l’epoca di Hitler -, Carl Schmitt. L’angoscia, per il brillante teorico, era costituita dall’eventualità che nascesse un governo mondiale – necessariamente territoriale (e questo è viceversa il nuovo nodo che nell’attualità occorre anche sciogliere) e quindi uno spazio mondiale – di stampo angloamericano, caratterizzato da un modo di vivere ritenuto nihilista. A mio diverso parere, una riedizione invece dello Spazio-aperto dei Greci.

Per far fronte a un’eventualità ritenuta negativa, Schmitt teorizza la costruzione di un Grande-Spazio, viceversa europeo in cui, contestualmente alla dinamica delle forze in atto, l’ordine del “nomos (tradotto: nome) della terra” avrebbe dovuto prevalere. Con l’uso del termine latino nomos, il giurista e filosofo tedesco intende sistematicamente che: Vi sono oggi europei che chiedono perdono per le imprese eroiche dei loro antenati, sperando di sbarazzarsi così dell’odio per il colonialismo. Nello stesso tempo nuovi nomi come Leningrado, Stalingrado e Kaliningrado rivelano il legame ancora attuale tra Nahme e Name, presa di possesso e nome. E il giurista tedesco che volesse riflettere sulla realtà della sua situazione attuale dovrebbe solo meditare sul fatto che a Lipsia l’edificio di quella che un tempo era la Corte suprema del Reich tedesco oggi porta il nome di casa Dimitroff[8].

Qui, non siamo ancora usciti dal Novecento. Per farlo definitivamente, occorrerà un’altra rivoluzione, stavolta non più in armi, non più politico-religiosa – e questa è una novità storica davvero sostanziale -, quanto piuttosto scientifico-tecnologica. La forma dell’Apparato che ha assunto e assume lo scettro del potere o il dominio (dal latino dominus, ovvero: signore, padrone) dell’attualità.

Le dinamiche attuali

Or dunque, la più “grande sfida” del XXI secolo è rappresentata dalla crescita demografica. In effetti, qui in Italia, il tema è stato posto negli anni Sessanta del secolo scorso all’epoca dei cosiddetti baby boomers. Ma, il termine deriva dall’esperienza analoga vissuta qualche anno prima negli Stati Uniti. Infatti, la figura del “baby boomer” rappresenta una persona nata nel Nordamerica tra il 1945 ed il 1964 e che quindi è parte del cerchio del sensibile aumento demografico avvenuto negli Stati Uniti in quegli anni. Il fenomeno, ripropostosi su scala mondiale, ha fatto sì che la popolazione mondiale è passata, a partire dal secondo dopoguerra, dal dato di circa 2,5 ai circa attuali oltre 7 miliardi di persone; e, in base a una recente previsione dell’ONU, si stima un’ulteriore incremento della popolazione a circa 9 miliardi al 2050 e circa 11 miliardi di persone appena entro la fine del secolo attuale.

Oggi, riguardo al fenomeno della crescita, l’aggettivo affatto abusato è “sostenibile”. L’interrogativo maggiore è quindi legato al governo di un siffatto processo di crescita demografica, che – a favorire l’analisi – potremmo scomporre in diverse partizioni e quindi fenomeni, quali a esempio ma principalmente quello del clima e dell’immigrazione. E dunque, quale sarebbe il “metodo” migliore per affrontare validamente ed efficacemente le questioni e i problemi legati alla determinazione e agli effetti di una, ripetiamo, siffatta “crescita”?

All’apice del secolo scorso, esattamente nel 1992 – all’indomani della caduta del Muro di Berlino, allorquando sono state gettate le basi per una nuova organizzazione del potere e quindi dello scacchiere mondiale, precedentemente strutturato e organizzato e fino ad allora quindi diviso in due blocchi di potere dell’Est e dell’Ovest -, fu edito il saggio The End of History and the last man, pubblicato con il titolo esatto in italiano di La fine della storia e l’ultimo uomo. Il testo del politologo ed economista statunitense Francis Fukuyama riscosse rapidamente un notevole successo, addirittura mondiale, tanto da risultare oggi tradotto in oltre 20 lingue.  Il titolo del saggio prendeva spunto da The End of History?, un altro saggio pubblicato su The National Interest nell’estate 1989 (immediatamente prima dell’evento della caduta del Muro di Berlino), in risposta all’invito a tenere una lezione sul tema “la fine della storia” presso la cattedra di filosofia politica all’Università di Chicago.

Il messaggio del saggio era chiaro, ma con ogni evidenza è stato smentito dal corso dei fatti storici e dalle dinamiche geopolitiche attuali: Siamo alla fine della Storia e all’ultimo uomo e alla fine quindi di tutta la società umana e planetaria. Questo era il messaggio forte e chiaro. Ma, smentito dalla realtà degli e-venti che sono accaduti e che accadono, la situazione del presente pare riproporre “eterni” interrogativi:

sono sufficienti la libertà e l’uguaglianza, sia politica sia economica, a garantire una condizione sociale stabile e soddisfacente? E ancora;

– dove sono e chi detiene oggi le chiavi del potere? Se il potere della finanza internazionale, così come comunemente noto, è tale da determinare e indirizzare il potere politico;

– il potere politico è e sarà capace in futuro di esercitarne il controllo? E se sì;

– è e sarà capace di garantire la soddisfazione di tutti gli stakeholders – termine anglosassone con il quale s’intendono “le parti interessate” – e quindi di garantire il potere?

In un saggio del 2008, dal titolo italiano del 2009 Cattiva finanza, il noto finanziere George Soros scrive: “un ritorno alle condizioni esistenti all’indomani della seconda guerra mondiale sarebbe un grande errore. La disponibilità del credito stimola non solo la produttività ma anche la flessibilità e l’innovazione. La creazione del credito non va imbrigliata più del dovuto”.

E tuttavia, occorre dire che la finanza non sembra capace è naturalmente capace di garantire il potere su scala globale, ma quel che è certo è che non è innanzitutto capace di garantirlo universalmente, e cioè a tutti i consociati. Occorrerebbe viceversa un altro metodo di esercizio e di controllo, che oggi sembra piuttosto affidarsi – e questo è l’elemento di assoluta novità storica, a cui finora abbiamo solo accennato – a un “Apparato” e quindi “potere” di natura tecnico-scientifica. A differenza del passato, la costruzione di un Apparato planetario della tecno-scienza capace di perseguire e raggiungere lo scopo supremo – a Oriente come a Occidente -che dalle origini della socialità è quello di costruire, così come precisa efficacemente Dario Smizer, “un Paradiso – in fine artificialenel quale eliminare definitivamente la conflittualità religiosa e ideologica e soddisfare i bisogni dell’intera umanità, sia ‘individuali’ che ‘spirituali’”.

Non sappiamo, oggi, se tutto questo un giorno sia possibile. Per il momento, ci basti il giudizio di quelli che il filosofo francese Michel Serres chiama “i ragazzi vivi” di oggi. Ovvero: “Alle appartenenze definite attraverso virtualità astratte, di cui i libri di storia cantano la gloria cruenta, ai falsi dei divoratori di innumerevoli vittime, preferiamo il nostro virtuale immanente che, come l’Europa, non esige la morte di nessuno. Basta con il sangue come coagulante sociale. Almeno il virtuale evita il carnaio. Non vogliamo più costruire una collettività sul massacro di un’altra o sulla propria immolazione; è questo il nostro futuro virtuale, contrapposto alla vostra storia e alle vostre politiche di morte”[9].

Concludiamo con una battuta: il presente è aperto, il futuro è apertissimo.

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