il Quotidiano di Salerno

direttore: Aldo Bianchini

VALLO DI DIANO: DAL CIPPO STRADALE DI ETÀ ROMANA, IL LAPIS POLLAE O ELOGIUM, LA STORIA DELLA AGRICOLTURA DEL VALLO DI DIANO DI VITANTONIO CAPOZZI CON LA PRIMA RIFORMA AGRARIA.

Dr. Michele D’Alessio

(Giornalista – Agronomo)

POLLA – Fin dai tempi del Basso Impero, la struttura economica e sociale del Mezzogiorno era stata dominata dal latifondo e in tale misura che non poche di queste vaste proprietà nobiliari erano ancora in piena età moderna entro i confini dei tempi imperiali romani. Il dominio dei normanni, dei musulmani di Sicilia e specialmente quello di Federico II di Svevia avevano impresso ai paesi del Sud un’atmosfera di modernizzazione ed anche di progresso (si pensi ad esempio alla prima scuola di poesia in lingua volgare); poi, con l’avvento degli Angioini tutto era tornato al peggio; la spada degli Angiò d’altronde, assieme alla potenza ecclesiastica papale ed a quella economica dei banchieri fiorentini era stato uno dei pilastri di quel sistema guelfo cui Machiavelli e Guicciardini avrebbero imputato la responsabilità principale della mancata nascita in Italia di un forte stato laico, simile a quelli, allora dominanti in Europa, delle grandi monarchie assolute nazionali. Le riforme agrarie hanno sempre portato scontri tra contadini e latifondisti, con caduti e versamenti di sangue. Anche nel Vallo di Diano, come ci racconta lo storiografo Dottor Vitantonio Capozzi, che porto anche un certo impatto ambientale intorno alla via Popilia o Annia, non fu esente da questi scontri.“…Non vi è dubbio che in generale una tale opera di riduzione a coltura dovette significare per lunghi tratti una completa trasformazione del precedente quadro paesaggistico a causa del massiccio disboscamento, della regolamentazione e del controllo delle acque; e tutto ciò dovette comportare notevoli benefici per l’agricoltura, ma seri contraccolpi proprio per l’attività dell’allevamento, che con ogni probabilità da sempre aveva utilizzato pascoli per lo più liberi. Non è un caso che un’eco di un tale inevitabile forte contrasto si avverta chiara addirittura in un cippo stradale di età graccana, il cosiddetto Lapis Pollae, detto anche Elogium, dove un magistrato romano esplicitamente afferma che “primus fecei ut de agro poplico aratoribus cederent paastores”. Qui tuttavia si evidenzia verosimilmente anche un “… punto debole dell’agricoltura romana, che non riuscì a saldare bene in un sistema unitario il campo con la stalla neppure sacrificando al pascolo qualche tratto di maggese… perché le mandrie e le greggi albergavano nell’agro, staccate dal seminativo, e ciò impediva la restituzione della fertilità al campo … “. La difficile convivenza di aratores e pastores fu verosimilmente in parte superata con “la trasformazione dell’allevamento da pratica stanziale a pratica migratoria”. Così si può pensare che nelle aree centuriate si imponesse con il tempo un’organizzazione che doveva prevedere una alternata presenza delle greggi d’inverno in pianura (quando queste non potevano recare danno ai coltivi) e d’estate o già in primavera (quando la pianura comincia a essere produttiva) nei pascoli marginali in quota. Tutto ciò dovette innescare una complessa articolazione di rapporti con gli agri pubblici destinati al pascolo e che diventavano in molti casi agri scripturarii per via di una tassa (scriptum), pagata dai pastori per poter pascolare in quelle terre nei mesi più caldi; nei mesi freddi, invece, le greggi dovevano per necessità occupare le aree planiziali, in larga misura destinate usualmente all’agricoltura e quindi non disponibili negli altri periodi dell’anno. Ai proprietari di questi terreni non potevano venire tuttavia che vantaggi da una siffatta situazione, sia in particolare dal concime naturale di cui gli animali erano portatori, sia soprattutto dalla stipula di contratti di locazione ai pastori, secondo normative che in parte ci sono note attraverso il De agri cultura di Catone.

Prof. Vitantonio Capozzi

È stato da tempo riconosciuto lo stretto rapporto intercorrente fra assegnazioni agrarie graccane, fondazioni di fora e conciliabula e impulso alla costruzione di vie pubbliche. Non è un caso infatti che proprio nel quindicennio successivo alla riforma agraria di Tiberio Gracco sia attestata in Italia una serie di costruzioni e miglioramenti stradali, oltre ad un buon numero di miliari; che in questi figurino i nomi di consoli e pretori e mai di nessuno dei due fratelli tribuni della plebe, neppure di Caio, non può meravigliare dato che la costruzione delle vie pubbliche spettava ai magistrati cum imperio. Talvolta per di più questi personaggi appartengono a gruppi senatorii ostili ai Gracchi; ma non è difficile immaginare che il progetto ideato dai due fratelli possa essere stato fatto proprio e realizzato, anche in aperta concorrenza con loro, da esponenti della fazione avversaria; si pensi al celebre e discusso miliario-elogio di Polla (I. It. III. 1. 272 = CIL I2 638) dalla dottrina prevalente assegnato al console del 132, P. Popillius Laenas. E’ quindi solo per una comprensibile forzatura delle fonti letterarie, che Appiano (B.C. I 23. 98) e Plutarco (C.G. 7; cfr. 6. 3), attribuiscono costruzioni stradali direttamente ai Gracchi e in particolare a Caio, specie se si tiene conto che a quest’ultimo risalgono importanti disposizioni de viis muniendis, oggetto di un’apposita lex Sempronia viaria (del 123–2) oppure più probabilmente contenute per connessione di materia nella stessa lex Sempronia agraria del 123; esse prescrivevano per la prima volta le innovative caratteristiche tecniche che si dovevano richiedere negli appalti di strade pubbliche. D’altra parte dal passo plutarcheo (C. Gr. 7) che le riporta, non si può in alcun modo desumere, neppure implicitamente che nella legge Sempronia si disponesse l’apposizione di miliari in strade precedentemente già costruite, nè che C. Gracco ne abbia introdotto per la prima volta l’uso, essendo i miliari già ben attestati per via epigrafica molto prima del 123. I fora graccani erano resi necessari per assicurare ai cittadini romani assegnatari dei lotti30, stanziati in una zona lontana da magistrati romani, le più elementari esigenze giurisdizionali, di censo e di leva, che potevano essere soddisfatte fissandovi la sede di una praefectura…”

 

3 Commenti

  1. Le rivoluzioni spezzano antichi rapporti di proprietà e di diritto che impedivano a forze produttive già presenti, con premesse tecniche già sviluppate, di muoversi nella loro organizzazione. Riforme possiamo chiamare in un grande senso storico le radicali misure successive che un recente potere rivoluzionario attua per rendere praticamente possibile questo trapasso tecnico, ma nel senso comune ed attuale sono le rabberciature promesse di continuo per smussare e nascondere contraddizioni, conflitti ed inceppamenti di un sistema vivente da tempo nel quadro conformista suo proprio

  2. I feudi erano grandi e anche immensi, le aziende piccolissime in quanto tenute da famiglie rurali, medie in quanto messe su dai primi contadini possidenti, i primi borghesi della terra, anche essi allora classe oppressa. l feudalesimo spazzato via dalle grandi rivoluzioni agrarie non era una rete di organizzazione aziendale, non disponeva e gestiva tecnicamente la produzione rurale, la sfruttava soltanto prelevando tangenti dovute dai contadini che provvedevano a tutti gli elementi della produzione, lavoro, strumenti, materie prime e così via

  3. La trasformazione delle campagne, delle scelte produttive e delle tecniche agricole è un fenomeno estremamente lento, che necessita di uno studio che si sviluppi su periodi di tempo piuttosto lunghi e tenga conto di molteplici aspetti
    . Tale trasformazione assume contorni e caratteristiche differenti, che derivano solo in parte dalla conformazione del territorio e dalla disponibilità di innovazioni tecnologiche; un ruolo importante è invece rivestito dagli elementi culturali e sociali che caratterizzano le comunità locali, dalle relazioni tra i soggetti del territorio e tra questi e l’esterno

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