La legge cosiddetta ‘’Pecorella’’ ,del 20 febbraio 2006, n. 46, concernente le modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, è stata dichiarata 15 anni fa, illegittima dalla Corte Costituzionale, con sentenza del 6 febbraio 2007 n.26

 

Pietro Cusati (giurista – giornalista)

Dr. Pietro Cusati (giurista - giornalista)

La Consulta con sentenza del 6 febbraio 2006,n.46,Presidente Franco Bile,,redattore il Giudice relatore il  Prof. Giovanni Maria Flick, dichiarò  costituzionalmente illegittima la legge  cosiddetta ‘’Pecorella’’,del 20 febbraio 2006 ,n.46, perché in contrasto con il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost., nella parte in cui vieta al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento, l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame  non può essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma. Risulterebbe lesiva, anzitutto, del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., consentire, infatti, all’imputato di proporre appello nei confronti delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare potere di appellare contro «le sentenze di assoluzione», se non in un caso estremamente circoscritto, significherebbe porre l’imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività»; questi ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal modo, il diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, che tutela i loro interessi. La possibilità, per l’organo dell’accusa, risulterebbe, in effetti, «poco più che teorica», perché legata alla sopravvenienza di prove decisive nel ristretto lasso temporale tra la pronuncia della sentenza di primo grado e la scadenza del termine per appellare.Inoltre la norma  si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 24 Cost., non consentendo alla «collettività», i cui interessi sono rappresentati e difesi dal pubblico ministero, «di tutelare adeguatamente i suoi diritti»: e ciò anche quando l’assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del fatto o nell’interpretazione di norme giuridiche.Risulterebbe violato, ancora, l’art. 111 Cost., nella parte in cui impone che ogni processo si svolga «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», posto che la disposizione denunciata non permetterebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa. Lederebbe  anche l’art. 112 Cost., infatti, la previsione di un secondo grado di giudizio di merito – fruibile tanto dal pubblico ministero che dall’imputato sarebbe «consustanziale» al sistema processuale vigente: con la conseguenza che la sottrazione all’organo dell’accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe i vincoli posti dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, «considerata nella sua interezza».Le sentenze di proscioglimento potrebbero formare invece oggetto di appello ad opera della parte civile: donde un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico ministero a trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.Non potrebbe rinvenirsi una ragionevole giustificazione delle norme censurate nel preteso diritto dell’imputato a fruire, sempre e comunque, di un doppio grado di giudizio di merito, nel caso di condanna. Un simile diritto non sarebbe riconosciuto né dalla Costituzione, né dalle convenzioni internazionali.Giova ricordare che , secondo quanto reiteratamente rilevato dalla Corte Costituzionale, il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2,Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, nello stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» , abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali».La Corte Costituzionale, pertanto,dichiarò 15 anni fa , l’art. 1 della legge n. 46 del 2006, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.

 

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