Leonetto Mazzacane, i Sanseverino e la storia d’Italia

 

di Giovanni Lovito

SALERNO – Nel contesto generale della storia moderna ben si colloca la figura di un condottiero valdianese menzionato, in alcune considerevoli opere storiche, come valoroso e impavido militare al servizio della corona spagnola. Si tratta del barone Leonetto Mazzacane1, signore di San Giacomo, Lustra e Omignano , oltre che suffeudatario del principe salernitano Ferrante Sanseverino, cui fu legato fraternamente negli anni più ‘caldi’ e difficili della storia rinascimentale. Diversi studiosi, tra cui Costantino Gatta (C. GATTA, Memorie topografico-storiche della Provincia di Lucania, Rist. Anas. a c. di F. LA GRECA, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Agropoli 2000) e Raffaele Colapietra (R. COLAPIETRA, I Sanseverino come paradigma critico della storiografia napoletana, in Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli 1999, pp. 181; 409), hanno già dato utili informazioni sulla figura del barone di San Giacomo, descrivendolo come un ‘vir fortissimus’ alle dipendenze di Ferrante, nel periodo in cui il princepssi trovava al servizio di Carlo V e, quindi, dei signori iberici. Lo storico settecentesco scrisse: «Fu illustrata questa terra (San Giacomo) dal Cavalier Lionetto Mazzacane di lei Barone, e Suffeudatario di Ferdinando Sanseverino IV Principe di Salerno, come si è detto: […]» (C. GATTA, op. cit., p. 252). È stato tramandato, inoltre, che allorquando l’Imperatore d’Asburgo doveva essere incoronato nel 1530 a Bologna, Ferrante, rappresentante del Regno di Napoli, in un primo momento era stato designato quale portatore dello scettro imperiale; successivamente, invece, tale incarico fu assegnato al marchese d’Astorga, giunto dalla Spagna «col donativo de i regni iberici, ch’erano duecento cinquanta mila doble d’oro». Il principe, quindi, decise di non prendere parte alla cerimonia imperiale, inviando al suo posto nella città emiliana Leonetto Mazzacane.

Il Sanseverino, figlio di Roberto e Maria d’Aragona, ebbe come suo segretario, oltre che il barone di San Giacomo, lo scrittore Bernardo Tasso, anch’egli legato al dominus salernitano da profonda amicizia, almeno fino a quando lo stesso non venne dichiarato da Carlo V «barone ribelle».

È ormai tradizionale la suddivisione della guerra franco-spagnola in cinque fasi fondamentali: 1521-26; 1526-29; 1536-38; 1542-44; 1552-59. Francesco I e Carlo V si contendevano il potere in Italia; con la battaglia di Pavia (1525), ancor prima della pace, voluta da Filippo II, di Cateau-Cambrésis che avrebbe suggellato il predominio spagnolo in Italia, la fine della lotta tra Asburgo e Valois e l’alleanza del Papato con l’Impero anche in un’ottica antiriformistica, la Spagna iniziava a consolidare il suo potere nel territorio peninsulare, mentre nel Regno di Napoli esercitava il suo potere il viceré don Pedro de Toledo, uomo molto vicino al sovrano d’Asburgo e acerrimo nemico del principe salernitano. Quando, intorno al 1550, Ferrante, per motivi politici e ‘religiosi’ (l’introduzione, con l’Editto del 1547, dell’Inquisizione nel territorio napoletano da parte di Carlo V), abbandonò gli Spagnoli per sostenere la causa del sovrano francese Enrico II, il barone Mazzacane rimase fedele al sovrano d’Asburgo, allontanandosi definitivamente dal suo principe. Ciò viene confermato da un interessante documento in cui si tratta dell’ultima fase della guerra franco-spagnola e della ‘campagna di Roma’ al tempo del pontificato di Paolo IV (Della guerra di Campagna di Roma et del Regno di Napoli nel pontificato di Paolo IV – Tre ragionamenti del Signor A. ANDREA, a c. di G. RUSCELLI, Gio: Andrea Valvassori Ed., Venezia 1560). L’opera offre ulteriori ragguagli, oltre che sulla storia rinascimentale italiana, sulla figura particolare di un capitano che, nonostante il suo signore avesse deciso di sostenere il reame di Francia, non tradì la fiducia e le aspettative politiche degli Asburgo, combattendo duramente i Francesi che, intanto, avevano invaso e occupato il territorio romano, Ostia e lo Stato della Chiesa. Bernardo Tasso, mediante un’epistola scritta a Pesaro il 26 novembre 1557 e inviata alla moglie Porzia, offre alcune fondamentali testimonianze sulla situazione socio-politica dell’Urbe nell’ultima fase del conflitto: « […] Io, da quei primi rumori che posero in fuga tutta Roma, mandai via Torquato e mio nepote, e dopo a pochi giorni, crescendo la paura ed i pericoli, me ne partii io e me ne portai tutte le miglior robe che io mi trovava» (G. CAMPORI, Lettere inedite di Bernardo Tasso, G. Romagnoli, Bologna 1869, pp. 191 sgg.). Nel corso della battaglia combattuta in territorio laziale, per una grave lesione alla gamba trovò la morte il capitano Alvaro d’Acosta, mentre rimasero feriti Vespasiano Gonzaga, Marcello Mormile, Francesco della Tolfa e lo stesso Capitano Leone Mazzacane. Consideriamo, a tal proposito, alcuni passi estratti dall’opera cinquecentesca che vedono come protagonisti principali il viceré di Napoli Fernando Álvarez de Toledo, meglio conosciuto come duca d’Alba, e i capitani italiani colpiti durante il combattimento (Della guerra di Campagna di Roma cit., pp. 33-34): « […] il Duca vedendogli in tanta calamità e increscendogli la morte di sì valorosi soldati, facendo sonare a raccolta comandò che si ritirassero tutti, già avvicinandosi la notte, mandò con instanza grande un cavallo, perché in esso si ritirasse il capitano Alvaro D’Acosta, havend’inteso ch’era ferito, ma non giunse a tempo, perciò che la ferita fu tale in una coscia d’una palla d’archibugio […]; perduti i sensi tutti fu portato da quell’istesso soldato e da alcuni altri su una tavola, pendendo di qua e di là le braccia e le gambe come morto, e pochi giorni di poi essendo l’osso fracassato cominciato a infracidarsi, segatagli per ultimo rimedio la gamba, si morì di spasimo. Furono in questo assalto morti e feriti novanta otto Spagnuoli, et fra essi questo capitano Acosta, l’alfier del mastro di Campo Mardones, che s’adoprò quel giorno molto valorosamente, e diece altri alfieri e sergenti. Degli Italiani fu ferito Vespasiano Gonzaga, il Capitan Leone Mazzacane, andando a sollecitar’ quelle cinque insegne che rimettessero, Marcello Mormile, ch’essendo con grandissimo ardire giunto su la bocca della batteria fra i primi, fu ferito da cinque archibugiate, e fatto prigione il Capitano Ottavio Mormile, Giulio Longo e intorno a cinquanta soldati[…].».

 

A far luce ulteriormente sul periodo in questione e a confermare il profondo legame vigente fra Leonetto Mazzacane e Monte San Giacomo è uno stemma araldico risalente all’anno 1547 ovvero al periodo in cui il signore, probabilmente ancora nelle grazie di Ferrante Sanseverino, risiedeva nel piccolo centro del Vallo di Diano, dove esercitava, come nelle baronie di Lustra e Omignano, la giurisdizione criminale e civile. Un’iscrizione, indizio ulteriore del prestigio culturale e del potere del committente, riporta: AUD. F. AIVV. (La fortuna aiuta gli audaci). Una frase ‘storica’, di machiavelliana memoria, che avrebbe dovuto ricordare nei secoli la stirpe cinquecentesca; un’espressione classica che, nel periodo in cui si consolidavano sempre più le ‘nuove’ autonomie cittadine (Universitates civium), assurgeva a segnacolo del vigore politico-militare di un barone italiano che, posto nelle file della cavalleria spagnola, visse in prima persona le vicende fondamentali della Storia d’Italia.

Ciò – ritengo – non è cosa da poco.

 

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1 «[…] Leone, detto diminutivamente Leonetto Mazzacane Signor di S.Giacomo, di Omignano e di Lustri. […] Fù personaggio di molto talento suffeudatario de’Principi di Salerno; e questi fù quegli ignoto a Filiberto Campanile per odio, che vestendosi di Ferdinando Sanseverino gli arnesi, e gli apparati proprij, che havea preparati nel dì festivo della coronazione dell’Imperador Carlo V, prese il Confalone della Chiesa in nome del suo Principe, che doveva rappresentare la Maestà Pontificia. […]» (G.Campanile, Notizie di nobiltà,Napoli 1672, pp.131-132)

 

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