Petruccelli della Gattina racconta la sua vita di deputato e parla di De Sanctis e di Sella

 

da Matteo Claudio Zarrella

(già magistrato e presidente Tribunale Lagonegro)

In treno alla volta di Torino, Petruccelli della Gattina si sente rinfacciare da una viaggiatrice: “Voi andate ai balli di corte; voi andate alle ricezioni del barone Ricasoli; voi partecipate a taluni pranzi diplomatici, a certi banchetti nelle grandi occasioni. Voi siete invitati a tutte le feste. Voi viaggiate gratuitamente. Voi non pagate spese di posta. La vostra medaglia in oro è un passa-per tutto, generalmente rispettato. Voi potete fare dei debiti, si fa credito a un deputato! Il telegrafo trasporta il vostro nome in tutti gli angoli del globo, ove stampisi un giornale. Voi avete un palazzo principesco per andare a leggervi i giornali, parlare, fumare- senza parlare dell’acqua zuccherata a discrezione e, durante le sedute, ben anco dei liquori. Voi siete ben riscaldati. Voi avete una biblioteca. Le ballerine del Teatro Regio sono ghiotte di deputati, perché avete la riputazione di gente ricca e non taccagna. Vi domandano a fare il vostro ritratto per nulla. I giornali non parlano che di voi, come del fiore della nazione. Anche la caricatura vi tratta con riguardi, vedete Ricciardi? Siete indicati a dito quando passate per le strade. Voi troneggiate nel vostro circondario elettorale. Vi si danno dei banchetti, trascinano a braccio la vostra vettura, vi fanno dei toast. Voi potete perfino accomodarvi un ricco matrimonio! Facendo valere la possibilità d’essere un giorno ministro o il favore di un ministro. In una parola, voi siete una potenza, una forza, un favorito, una gloria”.

Petruccelli replica, spiegando la sua vita di deputato: “A Torino. Gli onesti abitanti di quella città avevano onestamente quadruplicato il prezzo del fitto, e bisognava collocarsi con una certa convenienza. Ed un deputato, perché deputato, è taglieggiato con avidità dovunque e da tutti. In ventiquattro ore un terzo del mio reddito tagliato via. La mia prima visita è alla posta. Vi trovo in media da quindici a venti lettere ed una dozzina di giornali. Il conte Coletti, in casa del quale io passai, dodici anni fa, una notte, essendo in viaggio, si ricorda di me e mi domanda che gli faccia ottenere un posto di Maggiordomo maggiore di S.M. Vittorio Emanuele II. Il signor curato mi domanda una sovvenzione per il campanile del suo villaggio, il quale non mi pare così compito come quello della Cattedrale di Milano. Il signor mio compare mi prega di sollecitare appo i ministri certe petizioni che e’si dette la pena d’indirizzar loro. E poi le lettere anonime che c’insultano a grossi fiotti: le lettere che ci danno consigli: le lettere che ci minacciano. Ma non ve n’è una la quale infine non c’incarichi di domandare qualche cosa o di fare qualche istanza presso dei ministri! Il deputato è un domestico naturale- la serva ad ogni occorrenza dei suoi elettori! Ma come fra tante avidità vi è sempre qualche lamento ragionevole, dei torti a far riparare- eccomi la volta per i ministeri. Il ministro, dal canto suo, mi riceve con un sorriso fino e sarcastico sulle labbra. Egli è cortese-troppo cortese- mi fa degli elogi che hanno l’aria di un rimprovero- perché il giorno innanzi io lo aveva attaccato a fondo. Egli si mostra sollecitissimo a darmi soddisfazione. È impossibile di essere più amabile, più semplice, più bravo uomo, più insinuante, più piaggiatore. Egli mi dà perfino ragione sulla giustizia dei miei attacchi! Un uomo forte si rivela contro queste trappole di cortesia perfida- ma gli uomini forti son dessi numerosi?”. Gli si obietta: “È lusinghiero di trovare il suo nome, i suoi discorsi, le sue opinioni lodate o discusse in tutti i giornali…un confortevole compenso”. Risponde: “Peste e ruina ai giornali. I giornali contrari ci sfregiano a disegno onde farci sembrare ridicoli. Ci si cacciano in bocca delle enormità, delle stolidezze, dei controsensi a dar l’itterizia. Ma continuiamo la nostra giornata. Tre ore assiso per udire un notaro che parlava di ferrovie, un medico che discute di enfiteusi, un canonico che spippola cannoni rigati! Mi si prega di restare immobile; e di botto un grande occhio nero e lucido si divarica dinanzi a me, che divora la mia persona. Quell’occhio fascinatore, vampiro, mi dà il brivido-io resto come preso. Il mio sarto mi ferma nell’anticamera per domandarmi un biglietto per tribuna dei diplomatici, quegli per chiedermi conto della salute del Ministro o del Governo, Dio mi perdoni! Si è venuti perfino a propormi di far la conoscenza di una ballerina, alla modesta ragione di dieci napoleoni le ventiquattro ore! Io caccio storditamente questa istanza nella saccoccia: mia moglie la ritrova. Voi capite il resto. La seduta è cominciata. Io ho la parola. Il subjetto è grave. Io ho bisogno di raccogliere le mie idee, di tenere la mia attenzione concentrata, un usciere viene a mettermi sotto il naso la sua coppa all’acqua zuccherata, e m’interrompe. I miei colleghi, alle spalle, mi suggeriscono delle considerazioni, che io non sollecito e che frastornano l’ordine dei miei pensieri. I miei colleghi di sotto, vanno, vengono, rimuovono, mi forviano, il presidente strimpella col suo campanello. Gl’intolleranti interrompono, si rumoreggia, si strepita, si sbadiglia, ciò che è la più oltraggiosa di tutte le opposizioni. Io mi sieggo alla fine, stanco, scontento”.

Petruccelli descrive i deputati del 1861 come “i moribondi di Palazzo Carignano”, accomodati sui banchi, lontani dalle gloriose imprese del Risorgimento. Con mirabili eccezioni. Sicuramente Cavour che “con un pezzo di cuneo”, chiamato Piemonte, “creò una nazione”. Sicuramente, Quintino Sella, dal marzo al giugno del 1861 Segretario Generale del Ministro dell’Istruzione, De Sanctis. Tagliente è il giudizio di Petruccelli su De Sanctis: “Il Ministero andò bene fino a che il signor Quintino Sella tenne il timone del suo ministero. Egli ha ingannato completamente, radicalmente ogni aspettativa. Il fuoco fatuo del suo debutto si è estinto miseramente nella confusione, nel disordine, nel ridicolo. Men che un commesso, egli ha brancolato nel vuoto”.  È il 13 aprile 1861. De Sanctis -Ministro, affiancato da Sella -Segretario, tiene il suo primo discorso programmatico. Dice di aver trovato l’amministrazione della pubblica istruzione impacciata da “un cumulo di regolamenti, ammassati gli uni agli altri, dalle precedenti amministrazioni”, fino a costituire “una specie di scienza arcana. È questa ingerenza minuta in tutte le cose, è questa mania d’istruzioni, di circolari, per regolare ogni minimo passo che deve fare il professore”. Petruccelli commenta: “il solo suo discorso, abile, molto ben assaporato, ed applaudito sopra tutto dalla sinistra. Di poi è stato infelicissimo e pretenzioso. E l’ultima volta che parlò, fece pietà. Si smarrì, perdè il filo dell’orazione mandata a memoria, bevve acqua zuccherata ad annegarvisi, prese fiato, si lamentò del cicalio della Camera, del muover delle carte, del vento, del ganimede che gli portava la bibita…fu lagrimevole”. Da De Sanctis Ministro si pretende, in breve tempo, il miracolo dell’unificazione immediata delle amministrazioni scolastiche degli stati preunitari. Difronte ad uno spaventoso debito pubblico, v’è piuttosto l’urgenza del riordino del Regio Esercito, con l’integrazione di compagini militari che solo qualche anno prima erano straniere e nemiche. Garibaldi scalpita avanzando l’ostinata pretesa dell’ammissione, nel Regio Esercito, del suo Esercito Meridionale. È nell’aria lo scontro con Cavour, che avverrà nella tornata del 18 aprile 1861.

NOTA: Nel primo quadro il caricaturista Teia presenta deputati di sinistra; al banco in alto, il deputato Ricciardi e al bianco affianco il deputato Mellana, col gomito appoggiato sul foglio di carta. Sotto Mellana è De Pretis. Nel secondo quadro Teia raffigura deputati ecclesiastici e un gioviale e disteso marchese Gustavo Cavour, fratello maggiore di Camillo.

 

 

 

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