Le deliranti accuse di Giuseppe Gangemi ai curatori del Museo Lombroso

 

Da Franco Pelella 

PAGANI – Caro direttore, nel 2009, a cento anni dalla morte di Cesare Lombroso, fondatore dell’Antropologia Criminale, è stato riaperto a Torino il suo “Museo criminale”, sotto l’egida dell’Università degli Studi di Torino. Le collezioni comprendono preparati anatomici, disegni, fotografie, corpi di reato e produzioni artigianali e artistiche, anche di pregio, realizzate da internati nei manicomi e da carcerati. Secondo le note di copertina del volume a cura di Silvano Montaldo e Paolo Tappero «Il Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”» (Utet, Torino, 2009) “Il museo, unico al mondo, non è una raccolta di strumenti di punizione, anche se ne possiede alcuni, non vuole offrire al pubblico una sequenza di grandi criminali e di delitti efferati, sebbene tratti anche della criminalità; non è un museo dell’orrore. Intende, invece, presentare il pensiero di uno scienziato fortemente interessato ai problemi della sua epoca e che fu guidato da una profonda curiosità verso il crimine e verso qualsiasi forma di  devianza dalle norme della società borghese ottocentesca…”.
 

A partire dal momento della sua riapertura il Museo è stato oggetto di mille polemiche. Il Comitato “No Lombroso” ne ha chiesto a più riprese la chiusura. Alcune delle accuse ai curatori del Museo sono, però, incredibili. Un esempio è quello che scrive il professore di Scienze Politiche all’Università di Padova Giuseppe Gangemi nell’articolo “Il cranio conteso di Giuseppe Villella (I parte)” (in “Foedus”, n. 38, 2014, p. 77):    “…cosa rappresentano oggi i sostenitori del Museo Lombroso? Essi sono, dal punto di vista sociale, campioni rappresentativi della criminalità dei colletti bianchi (leggi della classe dirigente) convinti, allora come oggi, di essere al di sopra della legge e al di sopra dell’etica. Essi sono i rappresentanti di una categoria di criminali socialmente ben inseriti che, da un secolo e mezzo, commettono ogni tipo di reato senza dovrebbe rendere conto: depredano le risorse pubbliche (con la corruzione, l’evasione fiscale, etc.), violano le leggi (dal semplice arbitrio amministrativo alla vergognosa pedofilia), sprecano le risorse pubbliche (distribuendole tra amici e parenti o distruggendole per incompetenza); praticano forme di delinquenza finanziaria (appropriazione dei risparmi dei privati); ciononostante tutti hanno continuato e continuano a restare nei loro posti (a continuare a fare quello che hanno sempre fatto) malgrado sia più evidente che il loro stato morale non sia adeguato al ruolo che occupano. Sono espressione del ritardo culturale e politico di quelle classi dirigenti che non riconoscono o sottovalutano il problema dei reati dei “colletti bianchi”, in particolare i reati della classe dirigente scientifica o finanziaria o politica. Sono, sul piano sociale, ormai categorie superate dalla modernizzazione e dalla storia, sono espressione di riduzione atavistica individuale perché incompatibili con le esigenze della competizione internazionale in tempi di rapida globalizzazione”.

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