ASPEC: 8° convegno socio scientifico

 

Aldo Bianchini

SALERNO – L’ ASPEC, come già detto,  non è altro che la sigla dell’ Associazione Salernitana dei Portatori di Elettrostimolatori Cardiaci ed è stata fondata nel 2008 dal dottor Andrea Campana (il medico, leader locale dell’ impiantologia del minuscolo strumento tecnologico che passa sotto il nome di PM -pace maker- e che ha salvato letteralmente la vita a migliaia di soggetti cardiopatici) insieme ad alcuni pazienti e loro familiari.

Ma il dottor Campana, da tempo, è andato oltre e da professionista eccellente qual è ha cercato sempre di includere nella sua attività di continua ricerca anche altri soggetti che gravitano, comunque, nella sfera del suo mondo scientifico.

Dr. Andrea Campana

Difatti ogni anno Andrea Campana organizza una convention utile per fare il punto della situazione e per lanciare nuovi temi, sempre in campo cardiologico, che potrebbero accompagnare i pazienti nella gestione di una lunga, si spera, convivenza con la malattia. Quest’anno la convention è stata organizzata negli splendidi saloni del “Novotel” (Via generale Clarck di Salerno) ed aperta agli interventi di:

  • dr. Gen. Francesco Lupo su “Una storia che parte da lontano: l’eruzione del Vesuvio dal 79’ d.c. ai giorni nostri”.
  • dr. Andrea Campana su “Scompenso cardiaco: una epidemia ad alto tasso di mortalità, è possibile migliorare la prognosi ?”.
  • dr. Maurizio Santomauro (Napoli) che illustrerà “Cosa possiamo fare per ridurre l’incidenza della morte improvvisa negli atleti”.
  • dr. Giovanni Gregorio (Vallo della Lucania) per parlare di “Quando si diventa vecchi”, un argomento che riguarda davvero tutti.
Dott.ssa Anna Paola Campana - nutrizionista

Con la partecipazione straordinaria della dott.ssa Anna Paola Campana, nota nutrizionista, che con la sua applaudita relazione (al di là dell’atteso e seguito intervento storico-politico del generale Lupo) ha fatto da collante tra gli interventi degli altri tre relatori (Campana, Santomauro e Gregorio) e finalizzata ad un risultato comune: mangiare bene per vivere meglio. Un detto antico quanto l’uomo che molto spesso, e soprattutto ai tempi di oggi, viene puntualmente disatteso.

Insomma la dott.ssa Campana ha evidenziato, con parole attente e comprensibili, qual è il vero problema strutturale di tutte le sofferenze di origine cardiaca; l’alimentazione è fondamentale e chi vuole vivere meglio e di più deve curarla con meticolosità assoluta rivolgendosi ad un nutrizionista di fiducia; anche perché non esiste alcun problema di fondo ed ogni paziente potrà mangiare tranquillamente tutto a patto che mangi e beva in maniera assolutamente moderata e sotto il controllo sanitario stretto. Questo ho capito personalmente e da diretto interessato al problema ringrazio vivamente, anche a nome di tutti i presenti, la dott.ssa Campana per la sua chiarezza e per la sua disponibilità al dialogo con chiunque.

Impressionante, sotto il profilo della lucidità la relazione del dott. Santomauro che, partendo da accadimenti che hanno emozionato un’affollata platea di spettatori, ha tracciato una linea molto credibile sotto il piano scientifico con la trattazione dei casi di morte improvvisa di alcuni notissimi calciatori.

Lo scompenso cardiaco e la vecchiaia sono stati, invece, i cavalli di battaglia rispettivamente del dr. Campana e del dr. Gregorio; anch’essi molto comprensibili sul piano della terminologia scientifica che spesso sfugge all’attenzione dei più.

Dr. Prof. Bruno Ravera - padre della cardiologia salernitana

Il convegno socio-scientifico è stato arricchito dalla presenza del dr. Prof. Bruno Ravera, il papà della cardiologia salernitana, l’uomo che più di ogni altro ha lottato per la nascita e la crescita della divisione di cardiologia all’interno dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona; un impegno, professionale – scientifico – politico e comunicazionale (molti non sanno che il prof. Ravera è stato negli anni ’50 anche direttore di una rivista di cronaca e politica) che ha costruito le basi per il lancio della cardiochirurgia e per il riconoscimento di “clinica universitaria” del nostro più grande ospedale.

Aspettiamo il dr. Andrea Campana alla prova di un prossimo convegno socio scientifico.

NOTE:  Il generale Lupo è stato protagonista di una relazione storico-politico-scientifica che partendo dall’eruzione del Vesuvio del ’79 d.C. arriva all’eruzione dello stesso vulcano del 1944 e tocca       le sensibili corde degli immensi pericoli che tutta l’area napoletana corre nell’eventualità di una nuova eruzione, anche in relazione alle violente emozioni che la gente vivrà con sicure ripercussioni sulla salute.

Questo giornale con piacere pubblica la versione integrale della relazione del generale dr. Francesco Lupo.

dr. gen. Francesco Lupo

ERUZIONE DEL VESUVIO

Nella primavera del ’44 le Forze Armate si trovarono ad effettuare inaspettatamente una operazione di protezione civile a favore delle popolazioni vesuviane minacciate da un’eruzione. Sembrò allora un intervento inedito. Invece, già nel ’79 d. c. l’Ammiraglio romano Plinio fu coinvolto in una analoga situazione, conclusasi tragicamente con la sua eroica morte e la distruzione di Pompei.

Pagine di storia che stanno a dimostrare il ruolo svolto nei secoli dai militari nell’opera di protezione dell’uomo contro forze devastanti della natura: il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria.

Il “Pompei Airfield” del 504° “Bomb Group” USAAF non costituiva certamente, agli inizi della primavera del ’44, una prestigiosa base aerea, né per dotazioni né per ampiezza. Approntata a ridosso di Terzigno, con l’immaginabile urgenza imposta dall’avanzata alleata all’indomani dello sbarco di Salerno, consisteva in una spianata a forma di triangolo isoscele. Un’unica pista di un paio di Km. E ai suoi lati, a pettine, le piazzole di stazionamento dei velivoli, bombardieri bimotori del tipo North American “B25” Mitchell. Più lontano, verso est, un deposito di bombe e verso sud un deposito di carburante. A ritmo sostenuto da quell’unica pista, si avvicendavano decolli e atterraggi senza soluzione di continuità e ogni volta gli equipaggi, pochi istanti prima di toccare terra o di staccarsene, scorgevano distintamente le case sfondate e sgretolate di una intera cittadina. Per il personale di bordo non era una novità, di paesi distrutti ne avevano visti tanti nei 4 anni di guerra.  Tuttalpiù, l’anomalia era nelle ripetute raccomandazioni da parte del Comando Superiore di evitare possibili e ulteriori danneggiamenti. Inizialmente per molti la precauzione tradiva la necessità di non sprecare munizioni su un bersaglio già pesantemente devastato ma poi appresero che l’iniziativa dello scempio non era dovuto alla guerra, ma al Vesuvio. Trascorsa qualche settimana tutti gli equipaggi sapevano di Pompei, la cittadina romana sepolta dalle ceneri e dai lapilli nel ’79 d,C. e pazientemente riportata alla luce negli ultimi due secoli con incessanti scavi. Fu allora chiaro anche il perché della denominazione della loro base.  E così missione dopo missione quando tornavano lo sguardo curioso andava al cono del Vesuvio, verso quello statico concorrente, quasi per spiarne le intenzioni.  Per tale ragione non sfuggi, nella prima settimana di marzo che qualcosa del vulcano stava mutando. Infatti, nel pomeriggio del 18 aprile del 1944, dal cratere tracimarono, con rapida successione, diverse lingue di lava incandescente che puntavano minacciose verso la costa e le sue cittadine ed in particolare verso i quartieri di Torre Annunziata, torre del Greco e Resina tutti densamente popolati. L’apprensione dell’Allied Military Government e specialmente del Gen. MacFarlane responsabile dell’ordine pubblico del settore, il quale paventando una imminente riedizione della catastrofe pompeiana, trasmise un urgente messaggio allo Stato Maggiore di Einsenhower, nel Mediterraneo, per l’invio di navi da trasporto indispensabili all’evacuazione della popolazione civile, sembrandogli la via del mare l’unica via di salvezza e fuga. Ed ora facciamo un salto indietro di circa 2000 anni.

Era trascorso da poco il mezzodì quando il comandante della base navale di Miseno viene destato dal suo abituale riposo. Dal Vesuvio in linea d’aria ad una ventina di Km. quasi al centro del golfo di Napoli si innalzava una terrificante nube di denso vapore molto simile ad un mostruoso fungo. Senza frapporre indugi, l’Ammiraglio ordina l’armamento di un veloce battello e si dirige al molo per imbarcarvisi. Nel breve tragitto però viene raggiunto da un trafelato portaordini, inviatogli dalla stazione telegrafica, con un tragico dispaccio. Da Resina il Comandante Casco gli notificava che ogni via di scampo per i suoi uomini e per tanti civili è ormai preclusa: unica salvezza è la via del mare. L’Ammiraglio impartisce concitate disposizioni per la subitanea uscita in mare di quattro trasporti, su uno dei quali sale a bordo ordinando di far rotta verso Pompei.

La schematica ricostruzione della prima azione militare in Italia di protezione civile in un contesto di rischio vulcanico, per tanti aspetti molto simile a quella prefigurata dalle forze alleate nel 1944 (già innanzi detta) ci è stata tramandata dal nipote del protagonista l’eroico Ammiraglio nonché naturalista PLINIO in una dettagliata lettera redatta pochi giorni dopo. Quasi nello stesso istante che l’Ammiraglio romano viene destato dal suo riposo alle falde del Vesuvio percepisce nettamente la tragedia. I Continui scuotimenti sismici, i boati e poi la forte esplosione che proietta in aria il vistosissimo fungo – da allora definito pliniano – appaiono sintomi di imminente cataclisma. Da fonti contemporanee sappiamo che esisteva un distaccamento di marinai della flotta imperiale di Miseno presso Rectina, sobborgo di Ercolano, che molti storici identificano con la moderna Resina che nel 1969 ha cambiato nome con quello di Ercolano. Il distaccamento di Resina doveva disporre di un sistema di segnalazione ottica come quello usato sulle navi che in quei tempi era d’obbligo. Lo stesso Plinio e anche Vigezio Flavio ci conferma l’adozione abituale di torri munite sulla sommità di apposite aste mobili tramite la cui posizione verticale od orizzontale si riusciva a trasmettere interi messaggi. Altri autori tramandano l’adozione di ulteriori torri dotate di apposite feritoie attraverso le quali era fatta trapelare la luce di una vivida fiamma schermandole per tempi più o meno lunghi, si poteva telegrafare non diversamente dal codice Morse. Siccome il segnale ottico perde definizione oltre i 4 o 5 Km. Data la distanza sarebbero occorse tante stazioni ripetitrici intermedie ossia torri. Il distaccamento di Marina all’epoca richiedeva condizione indispensabile un discreto porto riparato dai venti e con discreta profondità. Tale condizione sull’arco costiero tra Napoli e Castellammare di Stabia è soddisfatta da Torre del Greco, cittadina chiamata fino al XVI secolo significativamente Torre Octava, verosimilmente l’ottava torre semaforica a partire da capo Miseno e questo sistema di segnalazione lo conferma anche Svetonio trattando di TIBERIO, il malfamato imperatore romano, di pochi decenni antecedente l’eruzione del ’79, che comandava dal soggiorno di  Capri, le incombenze di Roma tramite un costante collegamento telegrafico-ottico. Le quadriremi poche ore dopo furono in vista della costa di Ercolano, ma le sconvolte condizioni del mare e l’innalzamento del fondale non permisero l’avvicinamento e quindi fu giocoforza dirigere verso Stabia dove le condizioni sembravano migliori. Gettata l’ancora Plinio si diresse a piedi verso la villa di alcuni amici, anch’essi disfatti dal terrore e prostrato dal tragico fallimento dell’operazione e dal dolore e dall’orrendo destino di tanti commilitoni e di tanti civili e morì nel corso della notte e solo alcuni giorni dopo ne fu ritrovato il cadavere, antesignano esempio di soldato deceduto in una missione di soccorso.

Giusto 18 secoli dopo ricomparvero altri soldati italiani per un identico fine.

L’unità nazionale poteva dirsi appena compiuta e la repressione del brigantaggio finalmente esaurita, quando il Vesuvio iniziò un nuovo ciclo eruttivo. Il momento più intenso si ebbe nel 1872, ma già da alcuni anni contingenti di bersaglieri si prodigavano in soccorso delle popolazioni sinistrate. L’impiego delle FF.AA. in compiti così atipici di protezione civile costituì un significativo banco di prova per la neonata Nazione. Tra il 1900 ed il 1904 una serie di piccole eruzioni provocarono modeste colate laviche. Ma nell’aprile del 1905, il fenomeno progressivamente si intensificò determinando un crescente dell’attività esplosiva e sismica, inequivocabili sintomi di una imminente ripresa effusiva di grande portata. Si giunse così all’anno successivo, tra rigurgiti magmatici e quiescenze sospette, finché il 4 aprile 1906, anticipata da 4 modeste esplosioni dal cratere centrale, la lava prese a tracimare dallo stesso e preoccupava ampie fratture apertesi improvvisamente sui fianchi del vulcano. La loro minore distanza dai centri abitati le rendeva particolarmente temibili. Il giorno 7 aprile la situazione precipitò repentinamente: una ingente colata lavica prese la direzione della cittadina di Boscotrecase, minacciando di annientarla in poche ore. Altre lingue puntavano invece verso Terzigno e Torre Annunziata e proprio in soccorso dei due disgraziati paesi accorsero i soldati dell’8° Reggimento di Fanteria, per prestare i primi aiuti e per garantire l’ordine pubblico nelle operazioni di sgombero ed evacuazione. Già da alcuni giorni erano confluiti in zona numerosi reparti dell’esercito.                   98 compagnie impiegate per un totale di 8.500 uomini. Un comitato centrale ufficialmente istituito con apposito decreto governativo (oggi UNITA’ DI CRISI), fu insediato a Napoli il giorno 12. L’intero territorio a rischio fu ripartito in 4 settori operativi (oggi COM), ciascuno dotato di un proprio comando in grado di coordinare rapidamente e minuziosamente gli interventi, nonché di regolare l’afflusso e il movimento delle sezioni sanitarie e dei trasporti (oggi COMANDO – COORDINAMENTO – CONTROLLO).

Tra le prime incombenze vi fu la dolorosa esigenza della rimozione dei cadaveri a S. Giuseppe Vesuviano. Il giorno 8, nella chiesa dell’oratorio una folla di fedeli si era riunita per invocare la protezione divina contro le ire del vulcano. Il peso delle ceneri, che erano cadute sul tetto della chiesa, fecero crollare il tetto e cosi morirono 125 persone ed i soldati dovettero recuperare i morti, identificarli e dare sepoltura. Inoltre si doveva soccorrere i senza tetto, i tanti superstiti affamati ed atterriti, i capi di bestiame ancora chiusi nelle stalle senza foraggio e senza acqua e tutto il bestiame sparpagliato nel territorio di una dozzina di comuni e occuparsi anche di tanti sciacalli che si appropriavano delle ricchezze dalle case vuote. La Marina da guerra italiana fece ancorare alcune navi davanti alla costa minacciata. Ad esse si affiancarono unità della marina francese e tutto ciò sotto l’infuriare del Vesuvio. Ed ancora non ci si limitò solo a montare ospedali e cucine da campo, ma anche al consolidamento o alla demolizione degli edifici. Questi interventi rappresenteranno da allora in poi una scorta di copione costante in ogni catastrofe ambientale. Fu effettuata anche una singolare operazione dai militari comandati direttamente e personalmente dal Duca d’Aosta, operazione che ancora oggi si colloca ai limiti delle umane potenzialità e che poi è stata copiata negli ultimi anni per difendersi dall’eruzione dell’Etna. Infatti l’8 aprile, la colata lavica minacciava da vicino le abitazioni di Boscotrecase. Il Duca D’Aosta diede ordine di erigere un mastodontico argine di terra di riporto per fronteggiare la colata lavica che[I1] poi fece bagnare e così con la sola forza delle braccia palata dopo palata l’argine fu fatto sotto il ruggito del vulcano e i sinistri crepitii della lava. Il contatto tra l’argine e la lava provocava un rapido raffreddamento e così si riuscì a fermare e deviare la lava. Quando pochi anni or sono alle falde dell’Etna la Protezione Civile, dinanzi ad uno spiegamento di telecamere e giornalisti inviati da tutto il mondo, si accinse ad una identica soluzione, non si fece altro che ripeter con mezzi moderni lo stesso espediente. Al posto delle braccia dei soldati, le macchine movimento terra, al posto delle zappe le cariche di esplosivo, elicotteri dal cielo che versavano acqua sul terrapieno ma la logica e la finalità fu la medesima. Purtroppo il Duca D’Aosta e i suoi soldati non ebbero nemmeno il riconoscimento di una stringata citazione quasi che la temeraria azione fosse stata una estemporanea pensata di un bizzarro Comandante.

Al di là dell’esaltante approntamento della diga, occorreva ripristinare la staticità degli edifici rimuovendo la gran quantità di ceneri depositate sui tetti e accertarne la loro agibilità; recuperare la viabilità, scomparsa sotto metri di scorie; ristabilire le linee delle ferrovie dello stato; riattivare le reti elettrice, idriche, telegrafiche e telefoniche. A capo delle operazioni fu posto il Gen. Gustavo Durelli il quale oltre a tutto ciò provvide a far ripulire gli alvei dei canaloni che scendevano dal Vesuvio, e che garantivano lo smaltimento delle acque piovane. Si sapeva perfettamente che venendo meno quelle strutture di regimentazione idrica con i primi temporali, i cumuli di ceneri si sarebbero trasformati in fiumane di fango, riversandosi sugli abitati sottostanti con esiti anche peggiori della stessa lava. (cosa che invece è avvenuta nel 1998 a Sarno con l’alluvione). Furono costruite nuove briglie per meglio frenare la forza delle acque. Si dovette procedere alla valutazione e al censimento dei danni subiti dagli edifici civili, da quelli industriali e dalle culture onde consentire una equa ripartizione dei sussidi. Con uno stanziamento di sette milioni di lire pari ed alcuni mesi di tempo, il grandioso lavoro fu condotto a termine con riconosciuta efficacia. Il ruolo dell’esercito si dimostrò così fondamentale anche in caso di emergenza vulcanica. Nel 1944, però di quell’esercito ben poco rimaneva e gli scarni resti faticosamente riorganizzati e inquadrati, alcuni reparti affluirono alle falde del vesuvio, e con la sola forza muscolare tentarono di alleviare le sofferenze dei residenti. Le truppe alleate e in particolare quelle statunitensi si prodigarono generosamente, ponendo a disposizione delle popolazioni, che fino a pochi mesi erano nemiche, mezzi meccanici e uomini.

L’evacuazione via mare sollecitata dal Gen. MacFarlane dopo qualche giorno non si dimostrò più necessaria. Il vulcano infatti scemò rapidamente la sua violenza classico preludio della quiescenza. Prima però si produsse in una straordinaria emissione aerea: un immenso pino pliniano eruppe dal cratere e vi svettò a lungo con densissime volute di vapore e di cenere. In breve, infatti, come nella consuetudine delle eruzioni vesuviane, le correnti atmosferiche presero a sfilacciare quell’ammasso palpitante sospingendolo verso est in direzione ancora una volta di Pompei. Via via che il fungo si allontanava dal cratere, le scorie cessando il surriscaldamento e il conseguente moto ascensionale che le sorreggeva, iniziavano a precipitare al suolo. Prima i più pesanti lapilli e poi le ceneri bianche e dense si abbatterono in una vasta area nella quale rientrava completamente il “Pompei Airfield dell’USAAF. Con la violenza della grandine e con l’insistenza di una estenuante nevicata di scorie si abbatterono sulla pista sommergendola e quindi sugli stessi “B25” sottoponendoli ad un inesorabile bombardamento. Nel crepitio incessante dei proiettili vesuviani si distingueva lo schiantarsi delle cupole di plexiglass delle carlinghe, il lacerarsi delle superfici alari e dei piani di coda.  Cessato il fenomeno l’aeroporto somigliava ad una spettrale pista di sci con curiose carcasse aeree imbizzarrite e deformate schierate ai suoi lati. Mai fino ad allora una squadriglia di bombardieri era stata posta fuori combattimento a terra da un bombardamento vulcanico.


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