E’ TORNATO CHARLOT

 

di Michele Ingenito

L’universalità dell’arte e degli artisti si misura normalmente sull’onda dei ricordi, delle conseguenti emozioni, oltre che, ovviamente, attraverso la riproposizione critica delle loro espressioni, del loro talento, delle opere che li resero famosi.

Con la sua VITA D’ARTISTA, IL MITO DI CHARLIE CHAPLIN, recentemente pubblicato per i tipi della PHASAR EDITRICE di Firenze, Claudio Tortora ‘ricostruisce’ Chaplin, attraverso una interpretazione soggettiva ed originale dell’esistenza del grande artista inglese.

Da attore consumato e poeta di spiccata sensibilità, il noto artista salernitano ci consegna un nuovo Chaplin, conferendo a quel mito universale per eccellenza una dimensione sia pur soggettiva, ma mirata alla rivalutazione morale e umana dell’uomo. Di un uomo che, lungo l’intero arco, o quasi, della sua esistenza, fu innanzitutto artista, esclusivamente artista, spietatamente artista. Tranne che per gli anni che ne precedettero la morte. Allorché, circondato dall’affetto della moglie, dei molti figli e dei numerosi nipoti, assaporò nel breve tempo rimasto una diversa essenza della vita. La migliore, per i suoi conseguenti e più autentici valori.

Di quel periodo Tortora rivive, dal proprio punto di vista naturalmente, una vita per come avrebbe dovuto essere, per come avrebbe desiderato che fosse, in realtà per come fu, sia pure, di fatto, per pochi, pochissimi anni. Gli ultimi. Sufficienti, però, a restituire al mito tra i miti – l’uomo Chaplin detto Charlot – una dimensione troppo a lungo ignota.

Sta qui la novità letteraria nell’opera teatrale proposta. Un azzardo, non c’è che dire, un rischio consapevolmente assunto, una maniera molto soggettiva di ‘discolpare’ il fenomeno Chaplin da quell’amore artistico che a lungo lo separò da altri non troppo inseguiti sul piano umano e sentimentale. Se non superficialmente, rischiosamente, riduttivamente.

Il merito di Tortora è quello di capovolgere il dissenso per l’artista, estendendo all’intero vissuto di Chaplin quei medesimi valori per la vita e per gli affetti creati sin da giovanissimo. Un atto d’amore, quindi, che potrebbe riaprire un dibattito di estremo interesse sul palcoscenico artistico e culturale sia nazionale sia internazionale.

Quali riflessioni, dunque, su questa pièce in due atti di Claudio Tortora?

Sul piano artistico riappare indubbiamente l’amore a senso unico che un Chaplin inebriato dal successo e dalle debolezze delle umane cose pensò di dovere rincorrere a tutto spiano attraverso una vita vissuta per l’arte, a favore dell’arte e del sé attraverso l’arte. Di un sé concreto, manageriale, imprenditoriale, che gli produsse indubbi benefici e inestimabili vantaggi economici.

Sul piano personale, invece, l’opera richiama fortemente, attraverso il personaggio centrale, le emozioni proteiformi dell’animo umano, le sue infinite ambiguità, contraddizioni, fragilità, errori ripetutamente commessi nell’arco di una lunga vita: donne minorenni o meno che fossero, compagne, fidanzate, mogli, amori familiari trascurati; così come peccati d’epoca o presunti tali per un comunismo di facciata spietatamente invocato nei suoi confronti da un’America ossessionata dalla neo rivoluzione russo-sovietica di stampo leninista-stalinista, con conseguente persecuzione politico-giudiziaria e personale. Fino alla sua espulsione dagli USA.

Detto in breve, nella pièce teatrale di Claudio Tortora si assiste alla riproposizione di un dramma poetico-esistenziale trasferito direttamente sul palcoscenico. Dramma in grado di trasmettere ai suoi pubblici (lettori e spettatori)

emozioni nuove e diverse in relazione, sì, alla complessità dell’artista, ma soprattutto dell’uomo forse più famoso, certamente il più amato del ‘900.

Perché, e sta qui il ‘miracolo’ poetico-teatrale dell’autore, la sua VITA D’ARTISTA è la storia di una dimensione umana a lungo inespressa, eppure intima ad una sensibilità innata dell’uomo-Chaplin. Una storia che di quella specifica dimensione richiama l’attualità, l’intelligenza, il gusto, l’emotività, il destino.

Tutte cose che stimolano la visione teatrale di quest’opera originale, in uno al desiderio di una rivisitazione filmica dei grandi capolavori di Charlie Chaplin, in arte CHARLOT. Per meglio comprendere le ragioni della scena, della recitazione, degli atteggiamenti e dei comportamenti dell’attore sul duplice palcoscenico del teatro e del cinema, che, come i veri palcoscenici, si fondono in quello della vita.

Quanto al testo vero e proprio di questa originalissima pièce teatrale di Tortora come porsi dinanzi ad esso? Dinanzi al suo richiamo amarcord della vita di Chaplin-CHARLOT?

Certamente non attraverso i consueti e per molti aspetti desueti strumenti cosiddetti “oggettivi” o “descrittivi” della critica ufficiale: strutturale, semiologica, post-strutturale; così come storica, valutativa, emotiva, creativa, militante, giornalistica o accademica, dell’arte e della letteratura. Metodi, cioè, sostanzialmente riduttivi e in buona parte superati.

Ma, forse, proprio grazie agli afflati emotivi e poetici dell’opera, che ne favoriscono una analisi psicoanalitica, potremmo individuare la sua vera identità nel contesto della critica contemporanea. Non a caso, nella seconda di copertina, si legge:

 

“ (…) Chaplin resterà per sempre nella storia dell’arte, un “capolavoro” capace di smuovere le corde del sentimento e dell’emozione”.

Sentimento ed emozione, quindi, e, commozione direi. Perché, come nella celebre estetica crociana, “Quando c’è commozione e sentimento molto si perdona, quando essi mancano nulla vale a compensarli (…) “[1] 

Ancor più, nelle sue non meno celebri Lezioni di letteratura italiana del 1953, lo stesso Luigi Settembrini rinnova le bellezze della critica filtrate dal valore aggiunto dell’amore:

“Ci sono due specie di critiche, l’una che s’ingegna più di scorgere i difetti, l’altra di rivelar le bellezze. A me piace più la seconda che nasce da amore, e vuol destare amore che è padre dell’arte; mentre l’altra mi pare che somigli a superbia, e sotto colore di cercare la verità distrugge tutto, e lascia l’anima sterile.[2] 

 

Conseguentemente, i temi prevalenti di VITA D’ARTISTA si racchiudono in quelli poetico-esistenziali, il cui valore letterario è sapientemente espresso nel testo.

Perché “Tutto ha inizio e questo lo decide il fato, poi c’è la fine e questo lo decide l’uomo.” (I, xiv, p. 55); perché “sognare…è il nostro lavoro, … il grande tesoro… perché la forza del comico resta e resterà l’unico malinconico.” (I, xviii, p. 66); perché “se questa vita a volte ci sorprende un po’, lascia che passi e poi io la riprenderò. No, non ti arrendere e non ti abbattere mai … fratello ascolta.” (II, i, pp. 88-89); perché “non potrò mai dimenticarmi di te. Perché credo che tu sia rimasto un piccolo bambino …” (II, iii, p. 94).

Già, “un piccolo bambino”, come quello di Hermann Hesse in Kindheit des

Zauberers / L’infanzia dell’incantatore del 1923, biografia romanzata del grande scrittore tedesco, contemporaneo di Chaplin, in riferimento a quel “piccolo uomo solitario”, a quell’eterno fanciullo capace di guardare le cose con lo stupore intatto dell’infanzia, un “incantato” che vuole farsi incantatore, ricreando dalle rovine del reale un mondo meraviglioso di finzione che si configura come la sola e indiscussa realtà”.

         Per questo “Stasera voglio chiedermi una cosa”, soggiunge il poeta ‘Chaplin’ dietro le parole di Tortora, dietro i suoi mille se: “se, … se, …se, … se, …se…” (II, iii, p. 96).

Per una risposta che sarà lo stesso nostro ‘contemporaneo Chaplin’ a darci in relazione ai mille, infiniti ossimòri della vita:

‘Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore (…) è paradossale che nell’elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura, se non vogliamo impazzire’ (Charlie Chaplin).

Questa originale piéce teatrale diventa un dono dell’uomo di teatro di oggi al grande artista e maestro di ieri. Per un riconoscimento che è un urlo, un grazie infinito a colui che esorta ai valori effettivi dell’esistenza: al canto, al riso, al ballo, all’amore, all’intensità della vita:

 

“Prima che cali su di essa il sipario e l’opera finisca.”.

In quei valori si racchiude l’identità poetico-esistenziale dell’opera teatrale di Tortora per un messaggio finale che è anche la speranza così come richiamata dal coro finale:

 

“Eccoci…ancora siamo in pista / Questa è la vita dell’artista” (II, xviii, p. 134).

 

[1] L’estetica di Benedetto Croce. Dall’intuizione visiva all’intuizione catartica. -Firenze: Le Monnier, 1953, XI, 316 S. 8.

[1] Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, 1866/72.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *