Tangentopoli (99): “dicembre ‘93”, il vento si allontana e cresce, tra sussulti e conferme, il potere di De Luca

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Dunque tutto risolto e già disegnato il nuovo assetto del potere politico-imprenditoriale dopo il ballottaggio elettorale e dopo i clamorosi arresti di domenica 5 dicembre 1993 ?

Il giorno 8 dicembre 1993, mercoledì, il noto giornalista Luciano Pignataro scrive su “Il Mattino” che agli avvocati difensori e ai due magistrati Di Nicola e D’Alessio (recatisi nel carcere di Bellizzi Irpino per il primo interrogatorio alla presenza del GIP Claudio Tringali) l’indagato Luigi Cardito (imprenditore, avvocato e presidente dell’ACES) ha chiesto: “Chi ha vinto, De Luca o Acocella ?”.

La richiesta merita una riflessione partendo da un assunto fondamentale inerente l’immenso potere politico-sociale di Cardito; sembra molto difficile che lo stesso non avesse già saputo l’importante esito elettorale di Salerno.

Ed allora perché Cardito inaspettatamente pone questa domanda agli avvocati ed agli inquirenti: mera curiosità, desiderio di stemperare i toni, parziale ripensamento delle passate rivelazioni che, insieme a quelle fatte dall’altro imprenditore Alberto Schiavo (anche lui finito in cella quella domenica mattina), avevano consentito un clamoroso salto di qualità alle inchieste sulla presunta tangentopoli salernitana.

Non è dato sapere; qualcosa comunque salta nell’equilibrio degli accordi tra magistrati e imprenditori; i primi promettevano, forse, una sostanziale impunità e i secondi scardinavano il vecchio e logoro “sistema di potere contiano e delmesiano” a tutto vantaggio del sistema di potere politico-sociale-imprenditoriale-giudiziario incentrato sulla figura di Vincenzo De Luca (giusto ricordare che per i magistrati lui era il garante del bene comune, come dichiarato poco tempo fa dall’ex pm Michelangelo Russo); ad un certo punto, però, tutti quegli imprenditori che avevano straparlato con i magistrati quando erano liberi all’improvviso essendo stati incautamente arrestati cambiano marcia ed incominciano a riflettere sulle cose passate ed a cercare di rientrare nei binari dell’affidabilità e segretezza per essere incorporati nel nuovo sistema di potere deluchiano.

Eppure pochi mesi prima, nel corso del pomeriggio del 10 maggio 1993 presso il Tribunale di Sala Consilina (stanza del procuratore capo Domenico Santacroce), l’imprenditore Alberto Schiavo vuotando il sacco aveva anche consegnato nelle mani dei pubblici ministeri (Santacroce, Di Nicola, D’Alessio e Scarpa) un elenco analitico contenente oltre mille nominativi che avevano percepito, nei dieci anni precedenti, tangenti per un complessivo importo di circa 7.500.000.000= (oltre 2milioni al giorno di tangenti per 10 anni); insomma i magistrati avevano avuto nella loro disponibilità tutti gli elementi per rompere il ghiaccio e scatenare la fine del mondo; preferiscono, però, aspettare tempi migliori; tempi che arrivano proprio quella mattina del 5 dicembre 1993 (leggasi capitolo precedente) quando quei clamorosi arresti coinvolgono lo stesso Schiavo che aveva consegnato il lungo elenco di tangenti inerente i patti scellerati tra politica-imprenditori e istituzioni. A finire in carcere, oltre allo stesso Schiavo, furono anche funzionari del CIPE e un malcapitato segretario comunale di Ricigliano per una brutta vicenda di ricostruzione post terremoto.

Quindi, per ovvie ragioni connesse alla trasparenza dell’azione dei pm Di Nicola e D’Alessio, il patto non scritto tra magistrati e imprenditori si incarta e implode causando, come dicevo, una sorta di sfiducia da parte degli imprenditori che innestano la retromarcia contro gli inquirenti.

Un effetto, questo, che produce una repentina liberazione dell’avv. Luigi Cardito e di altri indagati; e mentre si avvicina il Natale riconquistano la loro libertà anche indagati storici come Antonio Di Donato e Raffaele Colucci.

L’anno ’93 si chiude, comunque, con uno speciale-giustizia (seminario dibattito) indetto per il giorno 11 dicembre presso il Centro Europeo J. Monnet in Via Domenico Savio di Salerno con la presenza di Vincenzo Buonocore (già magnifico rettore di Unisa), Poalo Carbone (avvocato penalista), Massimo Corsale (ordinario di sociologia presso La Sapienza di Roma), Vito Di Nicola e Filippo Spiezia (sostituti procuratori), Angelo Scelzo (vice direttore del quotidiano L’Osservatore Romano), Paolo Farnararo (dirigente scolastico e responsabile del centro) con Michele Ingenito (docente Unisa) nelle vesti di moderatore.

Dalle parole dei relatori si intuiva con chiarezza che molte cose stavano cambiando rispetto all’esplosione avvenuta nel corso del convegno “Giustizia e Stampa” di un anno prima nei locali del Sea Garden, dove ci fu il tremendo scontro tra l’allora sindaco Vincenzo Giordano e i pm Alredo Greco e Michelangelo Russo.

La sera dell’11 dicembre 93, invece, i relatori sono quasi tutti diversi, molto più pacati e riflessivi; è il segnale che il vento di tangentopoli st lasciando definitivamente la città e l’intera provincia.

Ma non manca il colpo a sorpresa; difatti prima del cenone di San Silvestro si scatena il putiferio contro Luciano Pignataro, Pietro Ferraioli e Clodomiro Tarsia autori del famoso o famigerato “Giornalibro” (un libretto di cronaca giudiziaria a puntate).

Salvatore Di Martino, socialista e sindaco di Ravello, li trascina con un speciale direttissima in tribunale con l’accusa di diffamazione e lesione della reputazione privata; il corpo del reto, cioè il Giornalibro, su ordine della Terza Sezione Penale del Tribunale viene ritirato dalle edicole e sospeso nella sua pubblicazione.

Si capisce che quello è un segnale molto preciso e cioè che la magistratura non è più compatta al suo interno e che, soprattutto, spegne la luce a quel tentativo estremo di quella libertà giornalistica che contava su un altro patto non scritto tra inquirenti e stampa.

 

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