TRENO 8017: la tragedia di Balvano e “La stanza delle mele”

 

Aldo Bianchini

La scrittrice dott.ssa Barbara D'Alto

SALERNO – Nel corso di questi ultimi 80 anni (1944 – 2024) sono stati scritti diversi libri sulla grande tragedia causata dal Treno/ff.ss. n. 8017 sotto la cosiddetta “galleria delle armi” tra le stazioni ferroviarie di Balvano e di Bella Muro (in provincia di Potenza); ne ho letti diversi, ma quello che più di tutti mi ha colpito, sia in senso letterario che storico/sociale/politico, è stato il romanzo “La stanza delle mele” (editore Guida – 2012) che la casa editrice così presenta: “”Una storia medianica, notturna, un romanzo di sottosuolo fatto di “visioni” che trovano riscontro nella realtà. Una narrazione inclusiva che nasce e si propaga da un luogo misterioso, “la stanza delle mele”, enclave domestica di una casa destinata alla demolizione, un luogo isolato dal mondo che diventa osservatorio attento per attraversare la Storia e spiegarne i significati””.

La scrittrice Barbara D’Alto (già dirigente scolastica) forse parte ed arriva da una fantasiosa “stanza delle mele” per attraversare, in un silenzio roboante, uno spaccato della società italiana dell’immediato secondo dopoguerra che si dibatte tra gli ultimi e velenosi scampoli di guerra per pensare e credere in un ripresa, impensabile e incredibile, che comunque nell’arco di un decennio dal 1944 al 1954 si materializza ed esplode in quello che passerà alla storia come “il miracolo economico” con ripercussioni molto positive anche per tutto il decennio degli anni ’60.

E Barbara a cavallo della cultura inizia il suo viaggio esplorativo partendo proprio dalla galleria delle armi tra Balvano e Bella Muro narrando nel dettaglio l’avventura di una ragazza-madre o di un ragazza già mamma che trova la salvezza fisica sotto quella galleria e che le ridarà una consapevolezza psicologica per un futuro migliore; la scrittrice si inoltra in ogni meandro possibile dell’animo di quella giovane mamma, portando sia lei che il lettore quasi per mano lungo i sentieri difficili della vita.

E nella fattispecie la scrittrice sa benissimo come destreggiarsi perchè conosce a fondo anche gli anfratti più profondi e inesplorati dell’essere e dell’animo umano; difatti lungo tutto il dipanarsi delle 143 pagine del romanzo Barbara D’Alto appare e scompare, a tratti si nasconde, poi gioca a rimpiattino con l’anonimo lettore nel dire e nel non dire, nel far immaginare e nello stroncare rapidamente, ma a volte mette chiaramente in luce anche la sua stessa paura, il suo intimo timore di mostrarsi troppo, di svelare particolari della sua vita che devono rimanere dentro di lei per sempre. E’ proprio in questo gioco di sussurri, di parole, di frasi, di salti nel <<tempo senza tempo>> che emerge tutto il talento della scrittrice. Si infila, quasi si intrufola nello scialle della neonata Marzia per riproporre la sua esperienza dei bombardamenti albanesi che lei stessa ha vissuto in prima persona mentre la sua vera mamma la trascinava lontana dal pericolo.

In secondo luogo mi ha colpito l’ansia di sapere, di conoscere, di scoprire passo dopo passo l’evoluzione della storia magnificamente romanzata partendo anche dalla mia stanza delle mele (e chi non l’h avuta !!) quella che avevo in paese e quella in cui raramente entravo per gli stessi inconsci timori della scrittrice; una stanza che io avevo visto e catalogato  sempre come “una cella infinita che rappresenta il tutto da cui non si può fuggire”. Ho utilizzato le parole con le quali la stessa D’Alto descrive la sua stanza delle mele; parole che, in un certo senso, mi hanno impressionato ed hanno inevitabilmente segnato questo mio commento. Mi sono chiesto quanto c’è di personale, cioè dell’autrice, nel romanzo: poco, troppo o niente ?

La risposta non è facile, per darla bisognerebbe prima sedersi virtualmente su una di quelle panche del treno 8017, utilizzate per i viaggiatori dell’epoca, e poi immaginare il contesto temporale in cui è avvenuta la strage per colpa dell’ossido di carbonio, tra grida di aiuto – sofferenze – dolori – richieste di aiuto e penose morti, per collocare la propria esperienza di vita al fine di ricavarne utili insegnamenti per il futuro. In quel treno, secondo la D’Alto, c’è tutto e di più, fino ad arrivare all’inverosimile certezza che i viaggiatori degli ultimi vagoni non sanno (se non dopo diverse ore) cosa è accaduto nei vagoni bloccati al centro della galleria. E questo è proprio ciò che accade per tutti noi nelle nostre vite.

Ma c’è dell’altro; la scrittrice passa in rassegna anche lo sradicamento dalla realtà rurale e contadina, in cui la crudezza di Tuttapposto non è la voce dello <<scemo del villaggio>> ma la voce della coscienza di tutti, che appare come la rappresentazione forse un po’ forzata e romanzata di una situazione di fatto immutata e immutabile per intere generazioni e che la protagonista riesce a stravolgere, e non solo con la sua immaginazione. Una realtà, il sud, dalla quale si deve fuggire per andare verso il nord nell’ottica del pensiero, quasi come un dogma, di quegli anni drammatici.

Tra le righe del romanzo si intuisce che la scrittrice racconta anche se stessa quando, appena neonata, passa dalle mani della mamma in mani sconosciute per essere salvata dalle bombe come Marzia viene salvata dai gas venefici del treno 8017 pur se costretta ad assistere ad immani tragedie personali di quei viaggiatori del suo vagone disperatamente vogliosi di raccontare se stessi prima della fine.

Non c’è che dire, un romanzo da leggere tutto d’un fiato.

 

 

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