LA FINE DEL “MIO” PROCESSO TORTORA

Avv. Giovanni Falci

avv. Giovanni Falci, in una foto recente

SALERNO – Da questo momento, iniziava un altro processo, il processo a carico di P.A..

Enzo Tortora si era fermato in Cassazione, non ci aveva accompagnato più e non lo avrebbe, comunque potuto fare fino in fondo.

Quella persona per bene moriva “di processo” il 18 maggio 1988 dopo neanche un anno da quella sentenza della cassazione che aveva messo la parola fine al processo, ma non aveva messo la parola fine a quello scandalo.

Anzi, la cosa più incredibile di tutta questa storia è che, dopo tutto, chi ha sbagliato è stato premiato, mentre chi ha fatto bene il proprio lavoro non ha visto riconosciuto i propri meriti.

Il presidente Sansone è diventato Presidente della VI sezione penale della Cassazione; il PM Di Pietro è diventato Procuratore Generale della Corte di Appello di Salerno; il PM Di Persia è diventato Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore; il PM Marmo è diventato Procuratore della Repubblica di Torre Annunziata.

Il Giudice Michele Morello non è diventato Procuratore della Repubblica Circondariale di Salerno.

Ora sarebbe semplice fare dietrologia oppure ipotizzare scenari di logge segrete o similari. Non ne ho prove, non ne ho neanche voglia, e non ci credo.

La mia risposta a tutto questo è racchiusa in una parola: “mediocrazia”.

Queste carriere solo così  possono giustificarsi.

Il mediocre, colui cioè che occupa uno stato medio tendente al banale, viene innalzato al rango di autorità.

Mi convince, in questo senso, la teoria di Deneault che afferma che oggi, nella mediocrazia imperante nella nostra società, per lavorare “bisogna sapere far funzionare un determinato software che consiste nel riempire un modulo senza storcere il naso, fare propria con naturalezza l’espressione “alti standard di qualità nella governance di società, e salutare opportunamente le persone giuste”.

Io e P.A. abbiamo invece continuato, dopo la cassazione e dopo la morte di Enzo Tortora.

Abbiamo continuato, inoltre, dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale, il codice Vassalli, avvenuto nel 1989.

L’attesa della causa questa volta è stata più lunga.

Prima, con gli imputati detenuti, il processo aveva una corsia, per così dire, preferenziale.

E’ chiaro che nel dover fissare due processi, uno a carico di imputato detenuto e un altro a carico di imputato a piede libero, prima ancora che la legge, è il buon senso e la ragionevolezza a far fissare per primo quello con il detenuto che, all’esito della causa potrebbe riottenere la libertà.

Ora, però, non c’erano più imputati detenuti. Il processo si era chiuso in cassazione o con condannati in via definitiva che, quindi rimanevano in carcere per espiare la pena, oppure con assolti che, ovviamente erano liberi a tutti gli effetti.

Rimaneva solo P.A., il mio P.A. che doveva ancora continuare la partita.

Eravamo al tie break.

Così come avviene nel tennis, se non vinci due “giochi” di seguito si continua fino a un certo punto in cui si disputa il tie break.

Come nel tennis il tie-break venne introdotto al fine di contenere la durata degli incontri che rischiava di protrarsi eccessivamente, così nel processo è stato introdotto il principio della ragionevole durata per contenere la durata troppo lunga delle procedure.

L’andamento del processo di P.A. era stato proprio quello di una partita di tennis.

Il lussuoso tennis - club di Montecarlo

Lo pensai il 30 aprile 1989 sugli spalti del Country Club di Monaco dove assistevo alla finale del “Monte Carlo Open” vinta dall’argentino Alberto Mancini contro il mio favorito, il tedesco Boris Becker.

A Monte Carlo non ha mai vinto un tennista per il quale facevo il tifo.

Sia chiaro non perché io porti male, ma solo perché i tennisti che prediligo non rendono bene sulla terra rossa, sui campi, cioè, più lenti come appunto sono quelli del  Country Club.

Il contrario di me è mia moglie che invece “porta bene” ai tennisti che io vorrei vedere perdere.

E’ stata capace un anno, nel 1995, di tifare per Thomas Muster, un tennista austriaco dal gioco particolarmente noioso, praticamente un muro insormontabile per l’avversario, un muro che ricaccia sempre la pallina nel campo dell’avversario. Un tennista che gioca un tennis all’opposto di quello che mi piace, del tennis spettacolare fatto di volee di smash.

Iniziò dagli ottavi a simpatizzare per il tennista austriaco perché aveva notato che non aveva fan che lo spingevano come tutti gli altri giocatori del torneo.

In particolare aveva notato che, ad esultare ad ogni suo punto, erano due sole signore che sedevano una accanto all’altra; una giovane e l’altra meno.

La madre e la compagna di Muster sentenziò, in maniera sintetica mia moglie! “Questo ragazzo sarà sicuramente orfano del padre, oppure, se anche non lo fosse, ha un padre di merda che non segue il figlio che gli dà queste soddisfazioni. Ma, comunque, certamente è orfano!

Da quel momento i sostenitori di Muster in quella partita degli ottavi contro lo statunitense David Wheaton erano diventati tre: la presunta compagna di Muster, la presunta madre di Muster e la mia sicura moglie Maria.

Il successivo match vedeva in semifinale Muster contro il tennista italiano Andrea Gaudenzi.

Nel mentre ci recavamo al Country Club con il servizio navette che ti prelevava in albergo e ti portava fino all’ingresso dei campi, senza dover parcheggiare, chiesi a mia moglie, sapendo la sua fede nazionalista, per chi avesse fatto il tifo in quella partita.

Fu precisa e secca: “Thomas Muster, Gaudenzi ha entrambi i genitori e non è orfano del padre come Muster”.

Io non so chi sia o sia stato il padre di Muster, so solo che per mia moglie era sicuramente morto con grande dolore del figlio.

Muster riuscì a battere Gaudenzi in una partita drammatica nella quale più volte si è stato sul punto dell’abbandono dell’austriaco perché aveva la febbre a 40 e non riusciva a reggersi in piedi.

A questo punto pensai che il percorso di Muster fosse comunque finito e lo comunicai a mia moglie: “domani o non scenderà in campo viste le condizioni, oppure sarà massacrato da Becker (il mio preferito)”.

Sempre più sicura di sé e forse anche dell’aiuto “dall’al di là” del defunto, per lei, padre di Muster, rispose: “se gioca vince!”.

La domenica 1 maggio ci avviammo per tempo al circolo del tennis.

In effetti il bello del torneo monegasco è che si gioca in un circolo piccolo in cui incontri e vedi da vicino, li tocchi, tutti i personaggi legati a questo sport e non solo, attori, calciatori, tutto il jet set.

Io, tra l’altro, ho anche una entratura particolare in quel posto: Nicolino.

Nel corso della mia frequentazione di Montecarlo, per “motivi” di gioco, io sono sempre stato ospite della SBM la Société des Bains de Mer che, in pratica, presieduta dal Principe Ranieri in persona, è la società proprietaria di quasi tutte le strutture del principato, casinò compreso.

Questa società è proprietaria dei 5 alberghi di lusso, del circolo tennis, dello stabilimento balneare “Beach”, della struttura “Sporting” dove si svolgono gli eventi estivi.  Per ottimizzare i costi di gestione che sono rappresentati in massima parte dal costo del personale tutto altamente specializzato, ha deciso di effettuare una politica di inviti. Ogni fine settimana, gratuitamente, i titolari della tessera di affiliazione, debitamente selezionati per tempo, hanno la possibilità di trascorrere il week end nelle loro strutture con l’unico impegno di trascorrere qualche oretta al casinò.

Io, “modestamente”, sono titolare di questa tessera d’oro fin dal 1985.

In effetti si tratta di una operazione molto intelligente di marketing.

Invece che avere camere negli alberghi o posti nei ristoranti vuoti che non abbattano i costi del personale, tanto vale invitare ospiti che comunque frequentano il casinò. Si sa che, per la legge dei grandi numeri, quante più persone entrano in casinò, maggiore è la probabilità di vincita del banco.

E poi, una volta in loco, se anche dovessi vincere, acquisterai qualcosa per te, per un regalo, darai le mance, in una parola metterai in circolazione i soldi.

Questa politica aziendale mi fu raccontata da Maddalena, una signora che curava le public relation del casinò e alla quale ero stato segnalato da un mio amico di Salerno, grande giocatore d’azzardo, a sua volta accreditato. Questo degli inviti funziona un poco come una catena di San Antonio; da uno all’altro.

Tenne a precisarmi Maddalena alla quale chiesi come mai “sborsavano” tutti quei soldi per me (mi riferivo al prezzo della camera dell’albergo che avevo letto dietro la porta e al prezzo dei ristoranti che vedevo nei prezzi riportati sui menù), che in effetti io a “loro” costavo giusto il cambio della biancheria dell’albergo e il costo della materia prima al ristorante. Camerieri chef, portieri, sevizio ai piano etc. erano pagati dalla società, a prescindere se la mia camera all’Hermitage o il mio posto al “Grill” fossero o meno occupati.

Da metà anni ottanta per un ventennio sono stato, perciò, un frequentatore abituale del principato, in pratica per lo meno 2 week end al mese ero a Montecarlo.

Ristorante dell'Hotel Hermitage con veduta sul campo centrale del tennis-club di Montecarlo; i coniugi Falci in prima fila sulla sinistra (Giovanni con gli occhiali da sole, la moglie di spalle)

In una di queste occasioni, un giorno, insieme a tutta la famiglia, ci fermammo a pranzo nel ristorante della piscina dell’Hotel Hermitage in cui ero di casa e alloggiavo abitualmente.

Questo ristorante era ubicato sulla terrazza prospiciente la piscina coperta dell’albergo con una vista su tutto il porto di Monaco. Si poteva pranzare anche in accappatoio senza necessità di salire in camera per cambiarsi.

Al tavolo fummo raggiunti da un sorridente maìtre il quale in perfetto francese ci chiese cosa volessimo ordinare.

Risposi in un francese sforzato che tradiva la mia origine italiana.

A questo punto di rimando l’impiegato in italiano mi consigliò qualcosa e io in gli risposi in italiano ricevendo una risposta in francese da lui.

Pensai che volesse prendermi in giro e allora gli chiesi, abbastanza infastidito, “mi scusi, ma lei è italiano o francese?”.

Il meitre, in maniera estremamente educata avendo forse compreso che mi ero sentito sfottuto, mi disse “per la verità sono italiano ma ormai sono quaranta anni che vivo qui ho anche moglie e figli francesi”.

Bene gli risposi e “di quale parte di Italia è originario?

Salerno” fu la sua risposta.

E io “anche io sono proprio di Salerno centro, lei di che zona?”.

Provincia, non so lei se conosce Sapri?”.

E io “certo che la conosco”. Il meitre: “non proprio Sapri, un paesino vicino, in collina, Torraca”.

Torraca?” esclamai tra l’incredulo e la soddisfazione, “io mi chiamo Giovanni Falci vuoi che non conosca Torraca?”.

A questo punto finì l’aplomb di Nicolino, finirono tutte le erre mosce che caratterizzavano la sua parlata ed esplose in una sguaiata scena di allegria, per la verità poco professionale.

U figlio ru’ professore? Che piacere, nu turrachese a Montecarlo”.

E allargò le braccia. Io mi alzai, allargai le braccia e lo abbracciai.

Mi raccontò che era Nicola Teano di “abbasc u paese”, ma in Francia era diventato Nicolà Teanò; mi diede i suoi recapiti, in una parola si mise a disposizione.

Per lui in quel momento rappresentai un riscatto sociale.

Avrebbe sempre potuto dire ai suoi colleghi e anche ai suoi superiori che da Torraca era giunto a Montecarlo non solo un operaio come lui, ma anche un professionista accreditato alla cassa del casinò.

Gli avrei voluto dire che era meglio un operaio come lui che un “giocatore”.

Il giocatore, a differenza del serio e professionale operaio, spesso può fare brutte figure.

Il gioco, infatti, come ogni vizio, accomuna la più svariata umanità che, quando diventa “giocatore” dimentica la sua provenienza.

Per cui attorno al tavolo verde ci trovi laureati e analfabeti; ricchi e poveri; giovani e anziani; uomini e donne; onesti e disonesti; intelligenti e stupidi; pregiudicati e incensurati. Proprio come la droga.

Comunque la mia amicizia con Nicolino mi dava degli ulteriori benefit oltre quelli che mi venivano offerti dalla SBN.

Tra questi la prenotazione fissa al ristorante del tennis, per tutto il periodo del torneo.

Quello del pranzo al torneo era un altro evento nell’evento.

Per far sedere il maggior numero di clienti, venivano montati dei tavoli lunghi con serie di sedie sui due lati, sicché si mangiava uno difronte all’altro e al fianco di altri clienti che non conoscevi.

Ho pranzato vicino a molti personaggi che neanche ti accorgevi essere loro nonostante la notorietà di cui godevano.

In  effetti c’è una tale abitudine alla loro presenza in quella città, che la gente del posto neanche si avvicina per l’autografo.

Una volta ero di fianco a Trezequet, un’altra spalla a spalla con Cristopher Lambert, un’altra ancora difronte a Mats Wilander e altri ancora che neanche ricordo.

Con Wilander che sedeva a fianco a mia moglie e quindi di fronte a me, mi ricordo lo guardavo e chiedevo a mia moglie sottovoce “ma chi è? Io lo conosco. Sarà di Salerno?”. E lei “anche a me sembra una faccia conosciuta sembra Antonio” (il nostro amico Antonio Amato).

Solo alla fine quando si alzò e venne Nicolino seppi da lui che era il campione di tennis svedese vincitore anche a Montecarlo.

Però, una cosa e vederlo in campo mentre esegue un rovescio e un’altra è vederlo a tavola, senza fascia nei capelli, che mangia una cotoletta.

Ritornando alla finale del 1995 io e Maria pranzammo come al solito e alla fine del pranzo bevemmo, come al solito, anche il limoncello di “Zia Liliana”.

Si trattava del limoncello fatto in casa da Zia Liliana, una zia di mia moglie e che portavo con me, lo consegnavo a Nicolino che me lo serviva freddo dopo pranzo.

Ricordo Nicolino con questa bottiglia da 2 litri dell’alcool o dell’anice, che tra i vari tavoli raggiungeva il nostro posto e ci versava i bicchierini del liquore.

A qualcuno che gli chiedeva, durante il suo passaggio con questo bottiglione in bella vista: “ce que c’est?”, Nicolino, perfetto, rispondeva “Je ne peux pas est privé”. Mi faceva impazzire di gioia e anche di risate quella scena.

Il limoncello di Zia Liliana che nessuno poteva assaggiare.

Unica eccezione ad offrire il limongello di Zia Liliana, dissi a Nicolino era se la richiesta fosse stata del Principe Ranieri o dei suoi tre figli.

In quel caso il bicchierino si poteva fare assaggiare, ma, comunque con moderazione.

Alle 15 in punto i giocatori scesero in campo e quindi fu scongiurato il ritiro di Muster.

Dopo i prime games io raggiunsi una postazione che mi piaceva moltissimo: la lodge.

Si Tratta di una serie di palchi come quelli del teatro situati proprio a bordo campo.

Ognuno è di una società che li prende per far vedere l’evento a propri dirigenti o ospiti d’eccezione. Io avevo notato che spesso alcune lodge rimanevano vuote e perciò una volta decisi di fare il “meridionale” fino in fondo; decisi di andare nella lodge di stramacchio, senza biglietto. Che c’era di male? Tra l’altro io a Torraca ho la loggia in casa e quindi, in un certo senso, sono abituato alla lodge.

Mia moglie non volle neanche provare e anzi mi disse che se fossi stato scoperto e cacciato fuori, di non tornare al mio posto che era di fianco a lei. Era una figuraccia che non voleva fare neanche per “induzione”.

Io invece osai e andò bene al punto che in tutti i miei tornei successivi che ho visto, potevo dire di avere la mia lodge, posto in cui ho anche ospitato i miei figli ignari delle modalità di acquisizione.

La tecnica era semplice: nei cambi di campo, quando è consentito alzarsi, io scendevo dagli spalti, andavo vicino al corridoio di accesso delle lodge dove al personale predisposto al controllo io mi limitavo a dire il nome della società che avevo visto avere la lodge non occupata da nessuno.

Entravo, mi sedevo e mi godevo la partita da un posto veramente eccezionale.

L’unica accortezza che avevo escogitato era quella, ogni tanto, sempre nei cambi di campo, di alzarmi e far finta di chiamare qualcuno o al ristorante o in altra lodge: “Etienne, Etienne” ripetevo ad alta voce cercando di essere notato dal personale. In effetti ripetevo il nome più francese che ci fosse, se ti chiami Etienne devi essere per forza del posto.

La partita scivolava liscia. Becker aveva già vinto il primo set e vinse anche il secondo in scioltezza.

Io guardavo Maria sorridendo e lei faceva finta di non incontrare il mio sguardo neanche tra un Etienne e un altro.

Soffriva per il povero “orfano”, per di più malato.

Dal terzo set in poi è successo l’incredibile, l’inverosimile.

Muster vinse il set con grande facilità (6/1). Pensai che era successo quello che si suole definire un “passaggio a vuoto”.

E infatti nel quarto set la partita riprese il suo ritmo naturale ed equilibrato; troppo equilibrato: si arrivò al 6/6 e quindi al tie break.

Pensai che comunque era fatta. In genere i tie break li vince il tennista che sa fare i punti, non quello che si difende, il c.d. pallettaro.

E invece il tie break se lo aggiudicò Muster.

A questo punto ero io che evitavo lo sguardo di Maria e anche le chiamate di Etienne. Dovevo concentrarmi sul match manco se stesi giocando io. Mi piace talmente questo sport che vivo così intensamente le partite da stancarmi insieme ai protagonisti della partita e asciugarmi il sudore come loro nei cambi.

Il quinto set Muster vinse su di un demoralizzato Becker con un perentorio 6/0.

Raggiunsi Maria nel cambio del 5/0.

Volli assistere al suo fianco alla esultanza per la vittoria “sua” e dell’orfanello.

Maria è riuscita a far diventare Muster a febbraio dell’anno successivo numero 1 al mondo nella classifica ATP.

Il mio tie break a Napoli nel giugno 1990, il giorno 8 fu molto semplice.

Partii da Salerno con la BMW 320 grigio metallizzata (le cose andavano decisamente bene).

Il santuario dedicato alla Madonna di Pompei

Durante il viaggio da Salerno, nel mentre ascoltavo alla radio un pezzo veramente in tema col processo che era uscito da poco: don Rafè, di Fabrizio De Andrè, nel passare a Pompei davanti il Santuario della Madonna che si vede dall’autostrada, mi feci, come sempre, il segno della croce.

Tra l’altro il giorno 8 in cui c’era il processo, nella cabala è proprio “a maronna”.

Non sono un credente, ma quel segno è più forte di me.

Parte da solo, in automatico e solo i due precisi posti: a Pompei e davanti una edicola della Madonna dei Cordici sulla strada Torraca/Sapri.

Vengo anche preso in giro dai miei quando mi vedono fare il segno di devozione alle mie Madonne. E venivo anche sfottuto da mio padre secondo il quale, tra l’altro sbagliavo, perché davanti alla Madonna non si deve fare il segno della croce che le ricorda la morte del figlio, ma il saluto va fatto con il segno romano: ave Maria.

In realtà mi ha sempre colpito la figura di questa madre, della sua tragedia di vedere morire il proprio figlio.

Come si fa ad assistere alla morte di un figlio, a un fatto innaturale?

E perciò, a prescindere se è la madre del figlio di Dio, per me rimane una figura che rappresenta il dolore. Quel dolore, quel sentimento, che tutti gli artisti nella storia dell’arte rappresentano con l’immagine della Madonna ai piedi della croce, la Madonna Addolorata.

La Madonna dei Cordici, patrona del Comune di Torraca

Arrivai abbastanza fiducioso davanti la I sezione della Corte di Appello, fiducioso, si intende, sempre come lo si può essere davanti a un giudice, e indossai quella che era stata la mia “novella” toga all’inizio di questo processo ma che ora, potevo definire la mia “vecchia” toga.

Sapevo ora di poter contare dalla mia nel “nuovo” codice uscito da pochissimo che era più garantista nei confronti dell’imputato, e sapevo che la motivazione della sentenza della cassazione impartiva direttive di motivazione tutto sommato non del tutto inconciliabili con l’assoluzione di P.A..

E così fu, lo stesso Procuratore Generale chiese l’assoluzione, seguita dalla mia discussione breve e concisa, tutta tecnica.

La Corte, dopo una breve camera di consiglio uscì e decise che “in nome del popolo italiano P.A. andava assolto perché il fatto non sussiste”.

Ora possiamo stare tranquilli avvocà ?” disse P.A. quando sentì il Presidente.

Penso proprio di sì, non credo che il P.G. impugni l’assoluzione che lui ha chiesto” gli risposi.

Il tutto è terminato nel ristorante “la scialuppa” di Borgo Marinaro a Napoli nel 1992 dove P.A. volle festeggiare per l’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita.

La Corte di Appello di Napoli Presidente Renato De Tullio, giudici a latere Michele Abbate e Giuseppe De Magistris decise che la libertà provata a quell’uomo di circa 30 anno valesse un indennizzo dello Stato di 50.000.000 di lire. P.A. fu l’unico di quel processo a vedersi riconosciuto questo indennizzo perché fu l’unico che concluse la sua vicenda giudiziaria nel 1990 con la vigenza del codice che aveva istituito questo istituto.

Per tutti gli altri il processo si era fermato in cassazione il 13 giugno 1987.

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