Brexit e guerra

 

da Antonio Cortese (giornalista)

Dopo mesi di guerre , da quella in sordina afgana, alle battaglie quotidiane del Donbass, viene alla luce una causa belli che la stragrande maggioranza di giornalisti, reporter  e approfondimenti in format talk show non hanno ancora preso in considerazione: Brexit. La secessione del Regno Unito seppur politica e formale ma mai economica nei fatti, ha destato tante gelosie da accendere scintille protezionistiche e nazionaliste. Focolai sopiti sotto le ceneri del consumismo globale senza frontiere, dopo la scelta della Camera dei Lord londinese hanno ripreso a brillare dai tizzoni infiammati delle aste spezzate di quelle bandiere messe da parte perché anacronistiche e sbiadite dai colori più forti del classico arcobaleno della pace. Tale secessione come le altre é figlia di una paura sciocca più che egoistica, tant’è che mentre per le strategie protezionistiche nei secoli scorsi c’era l’utile ragione doganale, oggi forse meno proprio in Inghilterra, ma maggiormente altrove, risulta quale debole quanto smascherato alibi razziale o nel minore dei casi una cecità snob. Uno snobismo anch’esso antiquato, demodé pure laddove ci siano ancora regole di etichetta o d’élite. Ma poiché queste battaglie fuori le mura provocano vittime umane, il discorso non dovrebbe poi perdersi nel più classico dei “disastertainment” televisivi come sta accadendo. Inviati di guerra, giornalisti all’ultima spiaggia si fanno mandare al fronte alimentano i tizzoni su detti facendo perdere a tutti il punto di partenza, la ratio scatenante di queste tensioni clandestine e indegne del terzo millennio.  A questo punto dunque non servirebbe più il referendum degli stessi inglesi pentiti, ma piuttosto un referendum di respiro europeo per dettare a Londra determinate condizioni partecipative perché in primis, il regno britannico anche con le colonie e isole e atolli sparsi nei sette mari, può essere tale solamente economicamente, culturalmente o con qualsivoglia protettorato,  basti che non risulti esclusivo al punto da schiacciare frizioni e attriti di cui la comunità internazionale possa soffrire come poi adesso si stia verificando, scatenando pretese figlie di paradossali perdite di coscienza e più gravemente della realtà. E poi perché il ruolo internazionale inglese ha cotante responsabilità che vanno riconosciute ma negli aspetti positivi e l’autoisolazionismo non conviene a nessuno (alcuni psicologi lo chiamano solipsismo, ma non lo può essere per una nazione o uno stato). Anche se le coscienze identitarie siano ad oggi di una preminenza ritrovata, o anche degne di rivalse neoidentitarie, non é detto che debbano perdersi  in una confusione ignorante  solamente perché i flussi migratori dai paesi emergenti siano più frequenti o piuttosto da regolamentare sic et simpliciter. Si sono moltiplicati i saperi, i linguaggi, i modi di vivere grazie ad un principio di integrazione di cui gli Stati Uniti dovrebbero fare scuola, ma anche ragionando colonialisticamente, si guadagna terreno proponendosi, non certo tirando i rami in barca.

 

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